GLI SPECIALI DI SDANGHER – I RAGE (SECONDA PARTE)

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Tutti sappiamo cosa successe negli anni 90. Bruce Dickinson lasciò i Maiden e i Metallica si fecero sedurre dal mainstream, i Guns & Roses si sciolsero (anche se non ufficialmente) e i Megadeth tornarono alla droga. Gli altri gruppi che c’erano in giro furono spazzati via dalle major, sia che si trattasse di band dalle vendite miliardarie quali Motley Crue e Poison, sia le star di nicchia del thrash americano, quasi tutte perse a fare a gara con la lepre o forse sarebbe meglio dire la Pantera.

La maggior parte dei metallari nel 1992 sentivano “Fear Of The Dark” degli Irons, il “Black Album” dei Metallica, Dehumanizer” dei Sabbath e Dio, “Painkiller” dei Priest, i Pantera, “1916” e “March or Die” dei Motorhead, i Sepultura, “Countdown To Exctition” dei Megadeth… non certo “The Missing Link” dei Rage o “Somewhere Far Beyond” dei Blind Guardian. Del resto non esisteva neanche il torrente e i soldi erano pochi, le riviste preferivano regalare la copertina alla faccia strafottente di Axl Rose oppure a quel salmone di Slash, non certo a Peavy o ai Virgin Steel. C’era il Death Metal per cui molti stravedevano e poco dopo nacque il Black Metal e l’insopportabile successo di band tronfie e glamour come i Cradle Of Filth (che io amo molto, sia chiaro). I Filth usavano le chitarre maideniane e un sacco di pischelli se ne invaghirono, tornando all’abc. Solo che non trovarono più nessuno a suonare quel genere di cose. Non certo i Maiden che avevano bandito persino le armonizzazioni nel loro ultimo “The X Factor” e tanto meno i Priest, orfani di Halford e panterosissimi fuori tempo massimo.
Quindi ecco che la gente si rivolse ai Gamma Ray, i nuovi Helloween, e ancora Stratovarius, Virgin Steele, Running Wild, Blind Guardian, Helloween, Iced Earth, Grave Digger, Rage, Kamelot, Symphony X e poi una band del menga, gli Hammerfall, che negli anni 80 non avrebbero nemmeno vinto a gara con gli Hallow’e Eve ma che nella decade successiva ebbero il mastodontico culo di trovarsi al posto giusto e al momento giusto. Gruppi sottovalutati, ignorati, rispettati per la coerenza ma poco seguiti anche dagli addetti ai lavori si videro improvvisamente premiata la perseveranza, la mancanza di ambizione, se vogliamo e furono la base di un nuovo trend che vide anche l’Italia tra i paesi più partecipi. Bastava darci dentro con la doppia cassa, saccheggiare il repertorio di Giorgio Moroder e di Rita Pavone e parlare di regine, re, draghi, spade e guerrieri solenghi, che i giovanotti col chiodo compravano a occhi chiusi.
I Rage rappresentano un caso a parte proprio perché nel momento in cui la gente era pronta ad accogliere il loro power senza compromessi, invece scattarono alla fase 3: LINGUA MORTIS.
LINGUA MORTIS è la fase del noiosissimo disco live orchestrale in cui la band reinterpretò, dandogli un respiro sinfonico, i brani che più o meno si prestavano a essere riarrangiati con i fiati e i violini. In contemporanea, giusto per tranquillizzare i fan, la band pubblicò anche “End Of All Days” che se per molti conservatori del metallo più true è uno dei dischi loro migliori, secondo il mio modesto parere è riuscito a metà. L’inizio è buono, “Deep In The Blackest Hole” è tra le mie canzoni preferite e nel finale c’è la meravigliosa “Fiding Hours” ma la sensazione generale è che i Rage abbiano voluto strafare. “Lingua Mortis” è sterile, ridicolo e noioso mentre “End…” è troppo tirato via nella confezione, c’è un’abbondanza di riempitivi nella parte centrale e soprattutto il sound è davvero poco definito. Esprime meglio che mai il vero punto debole della band ovvero la mancanza di un suono preciso, maturo e in grado di renderli riconoscibili.
L’identità sonora è un elemento indispensabile per guadagnarsi la patente di grande band ma in questo Peavy ha sofferto troppo i cambi di line-up, le mode, la mancanza di denaro e spesso l’eccessiva intemperanza stilistica. Non è grave e nulla toglie alla grandezza effettiva della band, ma bisogna dirlo, anche se mi scanneranno, i Rage non hanno mai avuto un suono loro!

“XIII” fu quello che avrebbero dovuto essere i due album precedenti se Wagner avesse avuto più coraggio e chiarezza mentale: un disco di inediti con arrangiamenti sinfonici. Un album ottimo, ma dove il power è quasi assente. La polpa dei brani era quasi hard rock radiofonico di inizio anni 90, con alcune parentesi giungiose e ammiccanti ai Metallica del “Black Album”, e molta malinconia esistenzialista.

Sì, è chiaro. Peavy era in movimento, lo è sempre stato. Qualcuno ha detto per via della voce che perdeva disco dopo disco, ma secondo me quello era un problema secondario, anche perché non ce l’ha mai avuta la voce. Dickinson ha perso la voce, Goeff Tate, Kiske, ma Peavy è sempre stato un urlatore a tutto fiato e che il Dio del metal continui a proteggerlo, non si può urlare in eterno. Da un certo punto di vista, come cantante è migliorato solo nel momento in cui ha smesso di falsettare come una vecchia zia derubata all’uscita dalla posta, il giorno della pensione.
Peavy non è solo cresciuto come bassista e come compositore, nel corso degli anni, rappresentando un ottimo esempio di buona volontà a cui i giovani strimpellatori dovrebbero ispirarsi invece di salire sul palco e fare i Kurt Cobain o i Billy Corgan; anche come interprete è progredito molto, ha preso lezioni e lavorato molto di più sulle note basse e l’interpretazione: adesso ugoleggia a voce piena, baritonale, è misurato e parco, anche se prende a calci in faccia le regole basilari della fonetica inglese con quella erre arrotata che è il suo segno distintivo e che lo tiene attaccato a quella brutta piega imitativa che si poteva notare soprattutto su “XIII”, in cui rifaceva il verso all’Hetfield più gigione. “Ehiheeeeeehaaaa!”

La fase LINGUA MORTIS prosegue con un cambio di line-up rocambolesco, in cui Wagner litiga con il resto della band, convinta di fare soldi anche senza di lui. I due nuovi comprimari sono però eccezionali: Mike Terranea e Victor Smolki, sono i migliori musicisti che Peavy sia riuscito ad arruolare da molti anni. L’affiatamento è notevole, la musica della band raggiunge dal vivo una potenza incredibile. Della serie: può non piacervi quello che fanno ma dovete ammettere che spaccano. Peccato che “Ghosts” e il successivo  “Welcome To The Other Side” siano album relativamente morbidi, inquieti e non in grado di mostrare subito il fuoco che quei tre riuscivano a produrre, anche se soprattutto con il secondo album, Peavy sembra muoversi di nuovo verso il metal ma in un modo diverso, più maturo.

“Unity” e soprattutto “Soundchaser” riconducono i Rage all’heavy cazzuto dei giorni migliori, ma senza rinnegare il nuovo rapporto con la melodia e l’ariosità compositiva sviluppato da “XIII” in poi.
Sono incerto su “Unity”, un disco troppo melenso in certi frangenti dove anche i Rage pagano l’errore di inseguire a tutti costi la melodia sparata, anthemica. I Gamma Ray caddero nella trappola con “Beyond The Black Hole”, in cui parafrasarono i Ricchi e Poveri e Peavy scivola sulla canzonetta italiota con “Living My Dreams”* che è una cosa a metà tra “Strada facendo” di Baglioni e “Alla scoperta di Babbo Natale” di Cristina D’Avena, la sigla del tristissimo cartone trasmesso dalle reti mediaset quando erano ancora le reti fininvest.

“Speak Of The Dead” chiude la terza fase, la più votata alla ricerca, ed è un disco che non osa quanto vorrebbe: comincia con il progressive metal in stile Rush nella prima parte e finisce con il power classico senza nulla stringere nella seconda. Si vede che l’esperienza di “Ghosts” gli è costata parecchio, al vecchio Pete, e non vuole perdere il pubblico che è riuscito a riconquistarsi con “Soundchaser”, non so, ma sembra un po’ la stessa cosa che fece nel ’96 con quei due dischi coevi, dove la band cercava di mettersi in gioco da una parte e di non farlo da un’altra. Magari Terranea se ne è andato anche per questo, chissà… sta di fatto che da lì tutto è tornato al proprio posto, senza più cambiamenti. I lavori successivi sono soltanto quello che la gente si aspetterebbe dai Rage, almeno in superficie.

La quarta e ultima fase si chiama infatti: MA QUANDO ARRIVA LA PENSIONE?
In “Carved In Stone” e “String To A Web”, Peavy si limita a firmare dei brani power senza troppi fronzoli, giusto per pagarsi le bollette. E questo è quanto. Noi non gliene facciamo una colpa, per carità, ma non ci aspettiamo più nulla e vorremmo che qualcuno riconoscesse, a uno dei pochi che davvero se la sono sudata in tanti anni di sacrifici non ripagati, la sacrosanta pensione.
“21”, l’ultimo album ufficiale, vorrebbe farci credere che non è ancora detta l’ultima parola, ma la sensazione dura circa i 12 minuti iniziali, poi si sprofonda in un senso di flaccidosa senilità che non raccomando davvero a chi vorrebbe cercare il vigore di questa band nell’ospizio (ri)creativo in cui sono ricoverati ora, a proprie spese.