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Tutti sappiamo cosa successe negli anni 90. Bruce Dickinson lasciò i Maiden e i Metallica si fecero sedurre dal mainstream, i Guns & Roses si sciolsero (anche se non ufficialmente) e i Megadeth tornarono alla droga. Gli altri gruppi che c’erano in giro furono spazzati via dalle major, sia che si trattasse di band dalle vendite miliardarie quali Motley Crue e Poison, sia le star di nicchia del thrash americano, quasi tutte perse a fare a gara con la lepre o forse sarebbe meglio dire la Pantera.
I Rage rappresentano un caso a parte proprio perché nel momento in cui la gente era pronta ad accogliere il loro power senza compromessi, invece scattarono alla fase 3: LINGUA MORTIS.
L’identità sonora è un elemento indispensabile per guadagnarsi la patente di grande band ma in questo Peavy ha sofferto troppo i cambi di line-up, le mode, la mancanza di denaro e spesso l’eccessiva intemperanza stilistica. Non è grave e nulla toglie alla grandezza effettiva della band, ma bisogna dirlo, anche se mi scanneranno, i Rage non hanno mai avuto un suono loro!
“XIII” fu quello che avrebbero dovuto essere i due album precedenti se Wagner avesse avuto più coraggio e chiarezza mentale: un disco di inediti con arrangiamenti sinfonici. Un album ottimo, ma dove il power è quasi assente. La polpa dei brani era quasi hard rock radiofonico di inizio anni 90, con alcune parentesi giungiose e ammiccanti ai Metallica del “Black Album”, e molta malinconia esistenzialista.
Sì, è chiaro. Peavy era in movimento, lo è sempre stato. Qualcuno ha detto per via della voce che perdeva disco dopo disco, ma secondo me quello era un problema secondario, anche perché non ce l’ha mai avuta la voce. Dickinson ha perso la voce, Goeff Tate, Kiske, ma Peavy è sempre stato un urlatore a tutto fiato e che il Dio del metal continui a proteggerlo, non si può urlare in eterno. Da un certo punto di vista, come cantante è migliorato solo nel momento in cui ha smesso di falsettare come una vecchia zia derubata all’uscita dalla posta, il giorno della pensione.
Peavy non è solo cresciuto come bassista e come compositore, nel corso degli anni, rappresentando un ottimo esempio di buona volontà a cui i giovani strimpellatori dovrebbero ispirarsi invece di salire sul palco e fare i Kurt Cobain o i Billy Corgan; anche come interprete è progredito molto, ha preso lezioni e lavorato molto di più sulle note basse e l’interpretazione: adesso ugoleggia a voce piena, baritonale, è misurato e parco, anche se prende a calci in faccia le regole basilari della fonetica inglese con quella erre arrotata che è il suo segno distintivo e che lo tiene attaccato a quella brutta piega imitativa che si poteva notare soprattutto su “XIII”, in cui rifaceva il verso all’Hetfield più gigione. “Ehiheeeeeehaaaa!”
“Unity” e soprattutto “Soundchaser” riconducono i Rage all’heavy cazzuto dei giorni migliori, ma senza rinnegare il nuovo rapporto con la melodia e l’ariosità compositiva sviluppato da “XIII” in poi.
Sono incerto su “Unity”, un disco troppo melenso in certi frangenti dove anche i Rage pagano l’errore di inseguire a tutti costi la melodia sparata, anthemica. I Gamma Ray caddero nella trappola con “Beyond The Black Hole”, in cui parafrasarono i Ricchi e Poveri e Peavy scivola sulla canzonetta italiota con “Living My Dreams”* che è una cosa a metà tra “Strada facendo” di Baglioni e “Alla scoperta di Babbo Natale” di Cristina D’Avena, la sigla del tristissimo cartone trasmesso dalle reti mediaset quando erano ancora le reti fininvest.
“Speak Of The Dead” chiude la terza fase, la più votata alla ricerca, ed è un disco che non osa quanto vorrebbe: comincia con il progressive metal in stile Rush nella prima parte e finisce con il power classico senza nulla stringere nella seconda. Si vede che l’esperienza di “Ghosts” gli è costata parecchio, al vecchio Pete, e non vuole perdere il pubblico che è riuscito a riconquistarsi con “Soundchaser”, non so, ma sembra un po’ la stessa cosa che fece nel ’96 con quei due dischi coevi, dove la band cercava di mettersi in gioco da una parte e di non farlo da un’altra. Magari Terranea se ne è andato anche per questo, chissà… sta di fatto che da lì tutto è tornato al proprio posto, senza più cambiamenti. I lavori successivi sono soltanto quello che la gente si aspetterebbe dai Rage, almeno in superficie.
“21”, l’ultimo album ufficiale, vorrebbe farci credere che non è ancora detta l’ultima parola, ma la sensazione dura circa i 12 minuti iniziali, poi si sprofonda in un senso di flaccidosa senilità che non raccomando davvero a chi vorrebbe cercare il vigore di questa band nell’ospizio (ri)creativo in cui sono ricoverati ora, a proprie spese.