Alunah – Dal Black Sabbath al Tranqui Sabbath – Come una Wiccan portò via il doom dal bosco nero e ne fece una pozione per il ciclo

Il nuovo album degli Alunah si intitola Solennial ed è bellissimo. Sono felice di questo perché dissi tante cose positive “in prospettiva” sulla band inglese quando recensii il loro secondo album White Hourhound su Classix Metal, cinque anni fa, e non c’è niente di più triste che sbilanciarsi parecchio su un gruppo e toppare… mi capitò per i Groan, a esempio, qualcuno se li ricorda?

Gli Alunha non sono un fuoco di paglia, sono un incendio rituale in stile uomo di vimini. Solennial è l’apice di una crescita costante, uno dei picchi di questa nuova stagione di occult rock. Io preferisco definire così gli Alunah: occult rock/metal band. A parte che è un’etichetta più economica di stoner/doom/psych/hard metal band e poi l’occulto è il solo vero elemento che distingue loro e altre realtà valide come Blood Ceremony o Royal ThunderChristian Mistress, Huntress da tutta la sfilza di fattame stoner, doomabbestia vario e vintage metal cosplayerz d’occasione che si trovano oggi in giro.

Gli Alunah sono tra le migliori espressioni di Occult Rock e Solennial lo dimostra oltre ogni dubbio. (Cit. Affratendovine)

Sapete no, quando in un solo disco ogni cosa va al suo posto e anche i difetti rimarcati con una certa irritazione in tutti i lavori precedenti acquistano fatalmente un senso? Ecco, in Solennial siamo arrivati a questo punto. Awakening The Forest è già un grande album, sia chiaro; e persino White Hourhound resta ottimo nonostante alcuni brani siano dei vicoli ciechi. Se non avete mai sentito gli Alunah vi consiglio di partire non prima di questi due, comunque. Call Of Avernus è troppo rozzo e prematuro, lasciatelo dov’è e magari tornateci quando avete assimilato bene i titoli successivi. (Anche l’EP Fall To Earth non è da impazzire).

Voglio dire, sul primo album ci sono buone cose ma nell’insieme è un’esperienza piuttosto ostica, specie per via dei limiti canori di Sophie Day, messi a nudo dalla produzione povera e frettolosa. Diciamolo chiaramente, lei non è proprio una cima col microfono. I recensisti del settimo giorno, nel 2001 la paragonavano con immenso sforzo connettivo a Ozzy. Questa collusione gli causò una paresi inguinale e da allora portano un cinto ernario intorno al cranio… ma in realtà non centrava nulla con il madm… il macell… lui, tanto meno oggi.

Mia moglie l’ha sentita, Sophie Day, in Solennial e dopo alcuni minuti passati ad agitarsi ha chiuso il tablet augurandole di morire. Sapete, lei di solito non prende le cose tanto male e poi ascolta i Taake tutto il giorno ma insomma, la Day è diversa e si sa, l’arte piace subito se assomiglia a qualcosa che già conosciamo, altrimenti abbiamo bisogno di tempo per apprezzare uno stile più originale. Di solito uno stile originale all’inizio fa sempre schifo al cazzo.

Sia chiaro però: se non ci fosse Sophie Day gli Alunah non esisterebbero, ne sono certo. Sono proprio lo stile vocale fragile e i suoi testi ossessivi su esoterismo, spiritismo e faunismo a tenere in piedi la band. Diciamo anzi che se Solennial funziona così alla grande è perché il resto del gruppo ha finalmente trovato il modo di “aderire”, di “cucire” la musica attorno alle cicciute e un po’ goffe forme stilistiche della propria frontgirl.

Lei è migliorata, per carità. Nel nuovo album, specie su brani come Feast Of Torches o Petrichor usa la voce quasi con una certa spavalderia,  concedendosi sfumature interpretative che fino a White Hourhound sarebbero state impensabili, ma badate, è la musica che esprime più umori rispetto al passato, alternando riff e arpeggi di grana fina e farcendo la sfoglia heavy di violoncelli e assoli lineari, ragionati e coinvolgenti.

Solennial è così levigato e armonioso perché prima di tutto è un grande lavoro di produzione. Con tutto il rispetto per Creg Chandler e Tony Reed (il duo che ha ingegnato e registrato White Hourhound e Awakening The Forest) c’è Chris Fielding qui. Il papà dei Conan (li conoscete, no?) si rivela un eccellente interprete della musica degli altri, peccato non lo sia della propria ma capita, guardate Bob Rock!

Chiaro che anche i brani di questo album siano tra i migliori mai scritti dalla Day, il marito David e quegli altri due. Non c’è un pezzo superfluo, non esistono passaggi a vuoto, ogni fraseggetto, tutte le varianti, le armonie, sono quelli giusti, necessari. Non viene in mente nulla che potrebbe starci meglio di ciò che loro ci hanno messo. Non c’è la zavorra doom intercambiabile di Avernus o di White Hourhound.

E per la prima volta, dall’inizio alla fine, la musica sta bene con le parole, anzi, le carica di senso drammatico e le rende più ambigue di quanto non siano. Cazzo, se prendete Awakening The Forest, anche lì ci sono delle perle di occult rock, ma spesso si ha l’impressione che in molti brani le liriche vadano in una direzione e i riff d’accompagno “cavallino” un po’ dove gli pare.

Non è semplice fare grande musica. Molte volte i gruppi procedono per istinto, assemblano sperando che le cose finiscano per star bene insieme da sole ma ci vuole un duro lavoro che solo il tempo (e i soldi) possono permettere di compiere. Gli Alunah sono riusciti a realizzare pienamente quello che erano nati per fare e oggi è chiaro cosa abbiano sempre cercato di realizzare prima di tutto a loro stessi! La Day ha detto chiaramente che questo è il solo disco in cui le idee nella sua testa sono molto simili a quelle poi finite su disco. So che potrebbe essere la classica frase promozionale ma si sente davvero che Solennial ha qualcosa di speciale, di più armonioso e schietto. In una parola: illude di essere la cosa più naturale del mondo. Talvolta agli Alunah era già riuscito di azzeccare questo equilibrio formale ma ci voleva ancora qualche annetto di tentativi prima di guadagnare questa padronanza.

Curioso poi che le cose siano migliorate a mano a mano che gli Alunah abbiano deciso di mollare la paccottiglia doomish autarchica. Insomma, ok, ci sta che tu prenda i riff dei Black Sabbath e adagi sopra dei testi “stregoneschi” ma qualcosa non torna quando il pubblico si accorge che di oscuro e minaccioso, la Day, non ha quasi mai avuto nulla da cantare. Esattamente, fate attenzione ai testi. I suoi sono resoconti del connubio che ha quotidianamente con madre natura. Parla dei rituali che crea pasticciando con le proprie emozioni, la creatività ritualizzata con gli oggetti che trova nel giardino dietro casa, tutto qui, nulla che giustifichi le massicciate torve di riff pentatonici che si sentono fino ad Awakening The Forest. Dai suoi rituali la Day esprime in voli fantasiosi il resoconto intimo sul benessere che le è conseguito ogni volta che è riuscita ad avere uno scambio con l’universo circostante.

Il noto brano Black Sabbath nasce dalla combinazione dei riff pesantostissimi di Tony Iommi e le tematiche sataniche del testo di Geezer Butler ispirato ai libri di Dennis Weathley. Tutto coerentissimo, non c’è che dire.
Weathley, autore britannico specializzato in superalcolici, sette sataniche e intrighi spionistici, non aveva il minimo dubbio su dove fosse il torto e dove fosse la ragione tra gli agenti segreti inglesi e i seguaci di Crowley in conflitto nei suoi libri, eppure le sue descrizioni di messe nere sono ancora oggi suggestive ed entusiasmanti e i ritratti dei cattivi adoratori de lo dimonio trasmettono un’autentica passionalità e un sapore molto reale. Tanto che per diverso tempo chiesero allo scrittore se avesse assistito a Messe nere autentiche. Lui disse sempre di no e probabilmente è vero perché se le si esamina senza lasciarsi coinvolgere ci si accorge che sono solo basate su una sfilza di luoghi comuni. Lui è molto bravo a creare l’illusione magica con la paccottiglia del ciarlatano.

Anche il testo di Butler lo è: uno stereotipo. La cosa geniale è infilarlo nel famigerato diabolus tricordo e bla bla bla. Nei libri di Weathley (di cui vi consiglio di recuperare Il club di Satana e Una figlia per il diavolo) e nel brano dei Sabs c’è il classico manicheismo di Nonna Papera: i buoni sono un pugno di beoni catto-papisti che vorrebbero fermare i satano-terroristi cattivi perché colpevoli di tramare l’ascesa al potere a suon di trombate bestiali e rituali immondi in compagnia di signorine discinte scappate di casa. Nel 1969 questa roba servì a far nascere il testo base del metal e va bene così. Il resto è fuffa.

Dopo quasi cinquant’anni cosa abbiamo, però? Una wiccan che esagera con il cheddar nelle notti ovulatorie e che usa una roba tipo sangue di maiale per ritingersi i capelli? La Day ama gli alberi, si ciba di marrubio per regolare il proprio il ciclo e darsi una rilassata (White Hourhound), sono sicuro che trovi ridicoli i vecchi romanzi di Weathley e preferisca di gran lunga i racconti di Lord Dunsany. Di tremendo nelle sue vicissitudini da fattucchiera il massimo che possa combinare è che offre di tanto in tanto e simbolicamente il corpo e la mente alla Dea per ringraziarla del buon umore che ha ottenuto bruciando qualche erba e parlando alla grigia luce del crepuscolo. La sua voce in un certo senso è coerente con il resto. Buffa, docile, melliflua e un po’ fatta. Tecnicamente ha l’estensione vocale di Courtney Love al termine di una peretta vaginale e il timbro duttile e caliente di Donita Sparks delle L7 strafatta di caramelle Rossana ma sappiate che è la Day in gamba e alla fine vince, come una grande strega quale è. Perché mentre Ozzy è un pischello tossico che fugge dalle spire di sanguinari settaroli del diavolo, la Day è il diavolo. In tutta la sua innocua, miciosa realtà.

Tutto questo lo dico provando un gran rispetto per Sophie Day, sia chiaro. Sorvolate le battutacce, di quelle non posso fare a meno. Sì, già nei dischi precedenti offre spazio ai miti simbolici (Demeter’s Grief, The Mask Of Herne) e storici (Hermetic Order Of The Golden Down, Bricket Wood Coven) e nel nuovo Solennial ha persino aggiunto qualche spettro e magari si è lasciata andare al malumore di una nottata di scorpacciate di frutta secca però in fondo lei sta bene, si gode la natura e la magia e questo riesce a trasmetterlo all’ascoltatore più percettivo e paziente. In realtà gli Alunah non sono una band in fissa col passato. Non tentano di fare i vintagerz. Se hanno un’aria così “fine 60” è la pigrizia generale a vedere solo quella. Basta ascoltare pezzi come The Offering su White Hourhound o la titletrack di Awakening The Forest e si avverte chiara l’influenza degli Alice In Chains, le armonizzazioni che spesso richiamano ai Paradise Lost di Icon, e le linee melodiche più debitrici a James Hetfield e Kory Klarke che non il vecchio Ozzy.

Non mi credete? Prendete Bricket Wood Coven e ditemi se non è una versione acida dei Metallica di Loud. Mettete la voce di James al posto di quella di Sophie e sentite se non ho ragione io. Poi ci sono i Cathedral un po’ ovunque, è chiaro, ma gli Alunah partono dall’alternative anni 90, esattamente come i Bloody Hammers, i Ghost e tante altre band che sono associate in maniera frettolosa ad High Tide o Coven, Black Widow e via elucubrando. In ogni caso grandi, eh? Ascoltateli bene, a lume di candela, nelle notti di luna bolsa, possibilmente con una bella tazza di tisana calda al marrubio tra le vostre cosciotte intorpidite.