Manowar of the world united of steel!

Pensa a tutte le armonie di An American Trilogy che abbiamo rifatto traccia per traccia! Tra l’altro non so se l’hai notato ma il tempo della canzone varia nel corso dell’esecuzione: a volte accelera, a volte rallenta… è l’interpretazione del direttore d’orchestra che voleva far sentire al pubblico il suo stato d’animo. (Eric Adams in un momento di proto-hipsterismo epico).

Una recensione di Warriors Of The World United? Perché? Cosa mai ci potrebbe essere in un album talmente bislacco, scarso, trito, spompo, che sembra scritto giusto per il fan club dei Manowar da una cover band dei Manowar? Non saprei come rispondere su due piedi ma di sicuro qualche spunto al riascolto dopo quasi quattordici anni dalla sua uscita io l’ho trovato. I nuovi lavori dei Manowar a partire già da Louder Than Hell erano vecchi classici mascherati. Se non altro da qualche tempo la band è passata al remake ufficializzato delle pietre miliari. Chiaro che Warriors… sia vittima della propria autoindulgenza, del narcisismo che domina il leader Joey, signore e padrone della valle of power and steel ma, al di là di tutta la broda non meno compiaciuta di critiche mosse a ogni occasione verso lui e quello che ormai la band è diventata, io credo che questo album mostri anche delle indiscutibili qualità e dica molto più sul metal rispetto a un qualsiasi neoclassico dei Mastodon, esuli inseriti nel genere heavy giusto perché i giornalisti non hanno avuto la voglia e l’ingegno di inventarsi una nuova etichetta che li differenziasse, come nel caso degli Alice In Chains per il grunge.

Per prima cosa di buono c’è l’irriverenza nei confronti del mondo esterno che fa il paio con l’ammicco smodato verso quello intimo dei fan. Per dire, quale recensore non ha lagnato la scelta di introdurre quattro lenti di seguito già dalla seconda posizione della scaletta? Pensate che i Manowar non abbiano calcolato la sorpresa e la delusione? Certo! Però se ne sono fregati, sapevano che i fan avrebbero accettato religiosamente anche un disco composto di un solo brano diluito per sessanta minuti (l’hanno fatto, vero?). Inoltre inserendo Nessun Dorma e An American Trilogy ( che a detta di DeMaio hanno portato via da sole più della metà del tempo (tre mesi che ci ha messo la band a incidere il resto dell’album), inglobando quindi Puccini ed Elvis, i Manowar si sono mostrati per l’ennesima volta più consapevoli di chiunque altro delle vere connessioni della propria arte, aggiungendo al loro personale Valhalla altri due dei forgiatori della loro poetica o retorica pelvic-operistica.

In ultimo hanno saputo ancora una volta sprigionare l’energia che ha dato origine alla prosperità e la longevità del genere: la foga del berserker trasmessa attraverso una ricetta infallibile di ritmi e note creata appositamente dai padri dell’acciaio per chi non vuole mollare.

A dimostrarvi una simile verità serve un fatto personale e me ne scuso. Mi era capitato di sentire Warriors Of The World (la canzone) in altri contesti quali la guida in macchina, una festa a casa di amici, il “suicidevole” video in TV mentre mi andava di traverso la merenda e l’ho sempre trovata il punto più basso dell’intera discografia della band.

Poi mi è successo di metterla al termine di una stressante seduta di allenamento specifica per le gambe.

Io ascolto molta musica durante le ore che passo in palestra e quel giorno mi rimanevano ancora dieci minuti di corsa al tappeto roullante ma non sapevo se ce l’avrei mai fatta.

Ebbene, nel momento in cui il desolato ritmare di cassa-rullante del “poro” Scotty Columbus attaccava e poi si aggiungeva il basso del vate DeMaio e di seguito la chitarra di Carl “Slimulk” Hogan i miei muscoli hanno subìto uno sprint inaspettato e via via che la canzone proseguiva, la mia voglia di affrontare quella distesa di dieci minuti, cresceva. E più i muscoli dolevano, più il mio orgoglio divampava nel petto congestionato, amplificato dai vari fire, steel, sword e wind di Eric Adams.

Sono arrivato in fondo sentendomi commosso e umiliato allo stesso tempo. Che ci crediate o no questo è successo. E vi giuro che se al posto di un abc tanto scemo del metal classico come quel pezzo avessi avuto in cuffia l’ultimo degli Obscura o Red Fang o Textures non ce l’avrei fatta a spingere fino a delle sacche di riserva energetica sconosciute a me stesso.

Ora, tornando a uno stato di relax, quel pezzo e tutto il resto dell’album è deprimente, ogni traccia è la copia stinta di modelli che la band ha proposto già decine di volte ma è come ascoltare gli Spiritual Beggars in stato di lucidità. L’oppio catartico dei Manowar è lo sforzo, il sudore, la fatica a cui ci stiamo arrendendo. Sentiti in quella situazione la loro musica vince e guadagna un senso e una vitalità profondi.

Inoltre un disco dei Manowar, da un certo momento in poi è diventato una sorta di biglietto da visita per le nuove legioni da arruolare. Il vecchio messaggio va ribadito, come un opuscolo militare: non hanno cose nuove da dire, i concetti sono quelli e li ripropongono a ogni disco ben sapendo che il ragazzino quattordicenne andrà a sentire proprio l’ultimo album e non Kings Of Metal.

E dal vivo c’è da scommetterlo che fu proprio Warriors Of The World a far cadere giù i soffitti dei palazzetti, unendo la furia dei vecchi defenders e quella dei nuovi fans.

All’orecchio di chi non ama la band o magari l’ha apprezzata nel periodo 1982-1992 è impossibile capacitarsi di tanta prevedibilità, ma non è a loro che i Manowar stanno parlando. E che il mondo esterno li sottovaluti fino a questo punto credendoli dei poveri rincoglioniti a loro non interessa. Gli fa gioco nel momento in cui il proprio esercito fitto e rigenerato calerà sul mondo in nome dell’acciaio, il fuoco e Odino Prestley.