Dylan Dog non abita più qui.

Dylan Dog è responsabile del mio bagaglio culturale. Prima di iniziare a leggerlo, nel 1990, non sapevo neanche chi fossero Arthur Conan Doyle, George A. Romero, il Rocky Horror Picture Show, Arancia Meccanica e Groucho Marx. Le citazioni continue, rinfacciate a Sclavi anche a distanza di molti anni, da quei ragazzini impressionabili che hanno vissuto la loro vita convinti che certe frasi e certe trame fossero frutto del genio del papà di Dylan e non presi pari pari da film e libri già esistenti, quei continui rimandi a opere artistiche già esistenti, sono state gli imput su cui ho costruito il mio travagliato e incostante cammino nel mondo della letteratura, del cinema, il teatro, la pittura e la musica. Non so perché ma tanti dei lettori della serie hanno vissuto queste scoperte delle citazioni, come un inganno che gli ha suscitato una collera retroattiva. Sclavi invece basò tutto proprio sul saccheggio selvaggio da quei film o quei libri che amava e che gli facevano compagnia in tutte le ore passate a scrivere storie Dylaniate. 
 
Tiziano era un grassone depresso che non aveva mai avuto rapporti sessuali, alcolizzato e con una sfilza di manie e ossessioni. La sola cosa che lo spingeva avanti era la scrittura e quando poté ideare un nuovo personaggio per la Bonelli, suggerì un tenebroso detective solitario, americano in stile Blade Runner, che si aggirava in una New York piovosa più o meno come quella poi ideata per il film Seven. Bonelli gli disse di scrivere sì un fumetto dell’orrore su un detective dell’incubo, ma di ambientarlo a Londra, il personaggio principale sarebbe stato un tipo simpatico e scanzonato, con una spalla comica vicino. Gli ingredienti imposti dall’editore che ammorbidisce un’idea molto più aggressiva e intransigente di fumetto è forse la cosa che ne ha garantito il successo, l’accessibilità. Sclavi però non era mai stato a Londra e dovette rubarla dai film che amava: Un Lupo Mannaro… di John Landis, Arancia Meccanica, Sherlock Holmes e così via. Chiuso in casa,
buttava giù due o tre storie contemporaneamente e le inventava fondendo insieme storie già esistenti. Non era un plagio o una truffa. Semplicemente, unendo personaggi e idee di altri, ne creava di proprie. Dylan Dog è un Frankenstain di tutta l’arte già esistente. I tratti del pittore Schiele e i personaggi ricalcati su quelli dei film; il protagonista ha la faccia di un attore esistente e così la sua spalla; i poliziotti inglesi sono copiati da quelli che si vedono negli horror della Hammer e in quelli dei film di Kubrick. Qualcuno ha detto postmoderno? No, evitiamo di parlarne e limitiamoci a constatare che la serie si ciba dell’arte che imita la realtà e non della realtà vera (che poi: quale sarà mai la realtà vera? E via andando con questa filosofia da quattro soldi che ha riempito i pomeriggi fattoni di tanti giovinetti degli anni ’90). Insomma, Dylan si ciba di finzioni solo perché Sclavi non sapeva come altro fare a creare il mondo vero.  Non c’è la vita vera, perché Sclavi non sapeva cosa fosse. Era un esiliato chiuso in una stanza a divorare fumetti, cd e libri, fantasticare di donne bellissime e di sogni e soprattutto incubi irrealizzabili; tutto ciò che vedeva e sapeva era nel regno dell’arte in cui si nascondeva, nelle emozioni di seconda mano e nelle visioni di seconda mano, anche se la visione mostruosa della vita vera, l’idea capovolta di incubo nel mondo reale e di sicurezza e salvazione nel mondo della fantasia, sono sue e nessuno gliele toglie. 
Se mia madre avesse letto il primo numero che cercò di impedirmidi acquistare, non avrebbe certo cambiato idea, non voglio dire questo, ma non sarebbero state le scene con gli zombi o il rapporto famigliare con un mad doctor di nome Xabaras, la violenza suggerita più che altro, bensì la visione così disgustata della vita che emerge dalle labbra del cattivone, rettificata da Dylan con battute che stemperano il tono da sermone metropolitano, ma che in fondo incoraggiano considerazioni antitutto: dall’ambizione sociale al progresso, fino alla vita collettiva in tutti i suoi peggiori momenti, la fila alla cassa o il traffico, in cui la natura degli uomini emerge nel suo peggio. Anche Bloch, all’inizio dell’albo dice qualcosa sulla fatuità dell’esistenza e ne parla con un patologo che vive in mezzo ai morti. Insomma, mia madre avrebbe detestato tutto quel pessimismo e quell’incoraggiamento ad arrendersi e rifiutarsi di far parte del brutto mondo degli uomini mostri, dove si muore ammazzati in mezzo alla strada senza che qualcuno se ne accorga. 
Gli zombi, nel finale del primo numero L’alba dei morti viventi risultano innocenti. Il mostro è Xabaras che li ha riportati in vita per la sua brama esaltata di sconfiggere la morte e assoggettare la vita al suo volere.
Tante volte si è ironizzato sulla differenza sostanziale tra Sclavi e Dylan. Il primo è un tipo goffo, schivo e misantropo, il secondo è goffo, schivo e misantropo ma donnaiolo, è attraente e non perde tempo a saltare addosso alle sue clienti; un outsider che ha una visione del mondo terribile, mitigata però da un uso dell’ironia applicata in modo estremistico a tutto ciò che gli capita, ma la fica non gli manca mai, anche se alla fine quel suo romanticismo intransigente che tanto piacque alle schiere delle adolescenti che finirono per scrivergli lettere d’amore, lo riconduce dopo molti anni alla figura del Peter Pan che si ostina a vivere le sue storie in modo così rocambolesco da impedire a esse stesse di aderire al tessuto reale. Dog lascia o viene lasciato sempre alla fine dell’avventura. Già, il primo numero è soprattutto questo, avventura. L’horror è solo un ingrediente, il più saporito, ma c’è tanto movimento, ritmo, anche se a badar bene, i personaggi non fanno altro che entrare e uscire e rientrare dentro una casa per circa 60 pagine, ma non è questo il punto. C’è una una leggerezza e una linearità che poi si sono perse nel corso degli anni. Ci sono delle ingenuità che oggi Sclavi ritratterebbe, chiamare un villaggio della Scozia Undead è un po’ troppo ovvio, mi pare. Dylan poi è meno tormentato di quello che sembra e sono lontani i tempi in cui il gregario Chiaverotti lo porterà a prendersi troppo sul serio. Fa il surreale, lo sbadato, mentre prende in contropiede tutti dimostrandosi detective esperto e preparato. La storia in sé non è niente di ché, in fondo. C’è un aspetto trascurato dai moderni film di zombi però, il cadavere che porta contagio aereo e che solo il fuoco può neutralizzare definitivamente. Di solito basta sparargli in testa e non farsi mordere, giusto? Invece qui se lasci i morti in giro e non li bruci il virus si trasmetterà comunque ad altri morti. Più intriganti i primi accenni alla storia personale di Dylan Dog che è morto e reincarnato, l’anticipazione sulla figura del padre e del nonno che conoscevano già il misterioso Xabaras è un altro spunto che ricordo mi fece sentire come uno scatto di manette a questo fumetto. Sarò tuo per parecchio ancora, caro Dylan. E così fu. Andai avanti a comprarlo per quindi anni e arrivai persino a cercare di aprire legalmente un’agenzia di investigatori dell’incubo, ma questa è una storia che vorrei mettere da parte per il momento.

Ci sono nel primo numero alcuni momenti molto coraggiosi e che oggi gli autori della serie non ripeterebbero. Per esempio Dylan spara in testa a una bambina zombi senza pensarci troppo e anche Groucho ammazza gli zombi prendendoli in testa con una facilità che neanche fosse Tex, ma il punto è che li uccide prima di sapere che non sono esseri umani. Tecnicamente è un assassino, giusto?
Il primo numero comunque è il canovaccio su cui si regge l’intera serie. C’è il prologo, la cliente che fa il giro alla polizia e infine disperata si rivolge all’indagatore dell’incubo. Siparietto iniziale con Groucho che spesso viene lasciato a casa e poi la storia comincia con Dylan che non ci capisce quasi nulla, di straordinario succede più o meno quello che capita in una puntata di Scooby Doo e alla fine il lettore si chiede se ha davvero intenzione di comprare anche il prossimo numero, cosa che avviene puntualmente da tanto tempo e ancora avverrà, perché badate bene, non siamo noi che smettiamo di comprare Dylan Dog. Lui ci abbandona, ma anche questa cosa vorrei posticiparla alla prossima puntata.  
 
Alla fine Dog becca pochi soldi, risolve il caso più o meno, si scopa la cliente più che meno, se ne innamora e le dice addio. Oppure è lei che dice addio a lui e se nessuno dei due si decide a separarsi ci si mette di mezzo un qualche mostro e amen. Abbiamo già la battuta ricorrente, quella sull’iscariota tarantolato che nonostante la smania di usarla nella vita vera, non sono mai riuscito a dirla in modo credibile, per quanto sentito. Poi c’è il clarino con il Trillo del diavolo di Tartini, che ho ascoltato solo molti anni più tardi dalla prima volta che ne ho letto sul fumetto e l’idea che qualcuno possa riprodurre quella sincopatissima traversata barocca con un clarinetto è semplicemente ridicola e quasi impossibile solo da immaginare. 
Ah, vero, poi abbiamo il galeone, 50 sterline più le spese, il maggiolino. Ma ne riparleremo. Ora devo andare, urlano alla porta.