L’ATTACCO DEI CLONI: PRIMAL FEAR – Unbreakable 2012

Come dovremmo porci nei confronti di chi cerca di proporre alle nuove generazioni il verbo dei Priest? Chi vuole spalancare la mente dei quindicenni con angeli che cadono o che muoiono e fenici che risorgono e tutto quell’armamentario tematico nato circa 30 anni fa, quando la vena mistico esoterica degli Zeppelin, il satanismo da discount dei Black Sabbath e gli eccessi pelvico-edonistici della scena Glam Inglese portarono a quelle storielle mitologico-metropolitane di demoni metallici pronti a invadere la terra e riscattare gli oppressi headbangers di tutto il mondo? 
Certo, molto fico e speriamo duri in eterno. Questo per chi scrive è il mantra, il blues che gli rigenera i nervi e gli nutre lo spirito, ma quando io sento roba come Unbreakable dei Judas Fear, qualcosa mi rincresce e non ce la faccio a lasciarmi andare come tanti miei coetanei (tipo i carissimi Trainspotting Bargone e Ciccio Russo) che spensierati sollevano le rituali cornine e scapocciano allegramente pensando che presto dovranno andarsi a cercare una birra nel frigo della nonna. No, quando sento i Primal Priest, ma anche i Gamma Ray del dopo Somewhere Out in Space, gli Hammerfall del dopo quello che vi pare, gli Stratovarious o gli Airborne, io di solito provo noia e poi mi irrito anche. Perché? Semplice, qui non si parla di scrivere buone canzoni senza inventare nulla, qui si preferisce recuperare i quattro i cinque dischi che hanno fatto la storia dell’hard ‘n’ heavy nella specifica decade odinica per eccellenza, ovvero gli ’80’s, e tra Saxon, Priest, Maiden, Manowar, Dokken e Helloween, comporre una specie di sunto revivalistico da consegnare in pasto a giovani sprovveduti. Non si tratta, come
qualcuno sostiene, di un’operazione di recupero, ma di un saccheggio furbino e sfantasiato che come unico fine ha di ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo. Anche perché non siamo nel 1995 e tu sei così idealista da rispondere alla marea di band grunge e alternative industrial-crossover-proto-nu-fucking metal, con una miscela sonora fatta di chitarre in controcanto, doppia cassa e gli acuti disumani di un novello Halford. No, qui siamo nell’epoca in cui le band storiche sono tornate praticamente tutte in pista e non provano più nemmeno a inventare qualcosa di nuovo, ma cercano solo di propinare alle nuove generazioni un riassunto di quanto fatto anni indietro, nella speranza che qualcuno si decida a ristampare i loro vecchi dischi e i giovani, a loro volta, che vadano a comprarli e sentire gli originali delle versioni sbiadite presenti in quelli più recenti.
Oggi è tempo di rigurgiti e rifacimenti a oltranza, nel cinema, nel fumetto e in tutta l’arte, compresa la musica medol, ma se questo scenario era il sogno di tutti i defenders boccheggianti nel 1996 (caro Stefano Giusti) al tempo in cui le riviste metallogene mettevano in copertina i Green Day, oggi che il sogno malvagio è diventato realtà, si boccheggia peggio di prima perché in questa valanga di copie delle copie delle copie di capolavori del passato, non ci si capisce più nulla e si prova solo un crescente senso di stanchezza. I ragazzi vanno ai concerti dei Primal Fear e cantano a tutto spiano pezzi come Metal Nation senza sapere neanche chi siano gli Accept o magari i Dokken o Metal Church. Qualche thrashercore dirà che è un bene, ma non si tratta di amare o no quei gruppi, è solo che non è giusto si prendano due cavalli di battaglia di quelle band e li si unisca scrivendoci sopra un testo da terza elementare che nemmeno i Saxon avrebbero più il coraggio di propinare alle masse.
I Saxon
Insomma, che ci crediate o no, quando nacquero gli UFO e poi gli Scorpions, non esisteva il concetto di Heavy Metal Band con la stessa autocoscienza di oggi. I Priest furono i primi a trasformare il genere in una bandiera. Non c’erano ancora i defenders of Steel e nemmeno il Tvue Metal, ma solo gente che stava portando il Rock di Jefferson Airplane, Grand Funk Railroad e Stones, verso lidi inesplorati, posti più oscuri e perigliosi, dove esistevano ancora i draghi, i mostri innominabili e dove per sopravvivere ci volevano borchie e spade e una fede incontaminata per riuscire a sopravvivere. Non dico che fosse il migliore dei mondi possibili, solo che era l’avanguardia del Rock e la NWOBHM fu la massima espressione di quel percorso di esplorazione artistica. L’America assorbì la lezione e creò due figli bastardi e ancora più avveneristici: il thrash e quello che qualche detrattore ha definito hair metal. Era musica nuova, fresca, coraggiosa, almeno all’inizio. Poi divenne commerciale e morì, come accade sempre, per rinascere dalle sue stesse ceneri tipo la puttanesca fenice di cui si parla in modo ossessivo dal 1983 in avanti. Riproporre oggi quella musica, con la scusa di recuperarla e farla riscoprire, significa semplicemente fare l’amore con i morti, seminare in un utero pieno di vermi. Ecco perché dopo la noia e l’irritazione susseguente che mi procurano dischi come Unbreakable, viene anche la nausea. Questi signori non amano il metal, sono solo dei parassiti che vogliono campare sulle invenzioni di altri, i veri geni: Malcolm Young, Randy Roads, Steve Harris, Ross The Boss, Glen Timpton e James Hetfield. Se volete potete continuare ad aggiungere… 
Un genio.
Non voglio essere frainteso: Ralf Scheepers è una bestia, un mostro di bravura e credo che se i Priest avessero preso lui, invece di Tim Ripper Ouens, Jugulator sarebbe stato qualcosa di incredibile e probabilmente la reunion con Halford non sarebbe avvenuta così presto, ma a parte la bravura, non posso approvare il miserevole lavoro artistico avviato con la sua band solista di quando lasciò i Gamma Ray. 
 
Il domani…
Quello che odio è approfittarsi di tanti ragazzini pronti a spendere soldi per comprare Unbreakable e non un qualsiasi capolavoro scimmiottato da Ubreakable. Il colpevole morale di tutto questo è Scheepers e non la miriade di bimbiminkia pronti a farselo mettere dietro. Insomma, caro Joey De Maio, se proprio vogliamo parlare di falso metal, io non me la prenderei con i Paradise Lost, ma con i Prima Fear.