ALESSANDRO ARIATTI RIVISITA DIO – Angry Machines

Sono tempi duri per gli dei del metallo tonante. La semplicità del grunge ha relegato grandeur ed epicità in un angolino, sostituendole con pragmatica attitudine e spietato groove. Molti eroi degli anni ’80 si trovano quindi davanti ad un bivio: continuare imperterriti per la propria strada, a costo di ritrovarsi a suonare in un cinema parrocchiale, oppure prendere il toro per le corna e cercare di domarlo? Nel caso specifico dei Dio, come fai a parlare ancora di arcobaleni quando ti trovi nell’occhio di un ciclone che sembra non finire mai, mentre all’orizzonte vedi il buio, soltanto un abbacinante, sconfinato buio? Probabilmente è questa la domanda che frulla per la mente di un Ronnie James Dio in balia delle onde del business. Allo stesso tempo la band è tosta e solida, con il fido Vinnie Appice alla batteria, l’ex Dokken Jeff Pilson al basso, il tastierista Scott Warren (che veste più che altro i panni di arrangiatore) e, last but not least, il chitarrista Tracey G.

Il contestato Tracey G., aggiungerei, considerato dai fans troppo “modernista” per dare voce alle visioni ad occhi aperti del piccolo stregone. Il problema è che il Ronnie di quel periodo non ne vuole più sapere di sogni e metafore alchemiche, ma vuole calarsi anima e corpo nella realtà. Una realtà brutale, violenta, ingiusta, crudele. Provate ad ascoltare questo album con la giusta predisposizione mentale, senza commettere l’errore (compreso il mio) di chi all’epoca “c’era”, e non riusciva proprio a digerire la svolta stilistica indotta da quei riff lenti, claustrofobici, disturbanti. E’ il caso dell’opener “Institutional Man”, oppure delle martellanti “Black” e “Big Sister”, dove Tracey G. si dimostra nettamente più a suo agio nella fase ritmica che non in quella solista. Unica concessione al passato la veloce “Don’t Tell The Kids”, per il resto “Angry Machines” è una sorta di “inno” al groove più darkeggiante ed incazzato, guidato dalle frastornanti “Double Monday” e “Big Sister”, dove Ronnie canta con la rabbia di un predestinato al patibolo. Discorso a parte per “Stay Out Of My Mind”, specialmente per quei gelidi arrangiamenti di tastiera e synth di uno Scott Warren che asseconda alla perfezione lo stato mentale del proprio boss. Da riscoprire e assaporare con calma, quasi si trattasse di un nuovo album dell’indimenticabile vocalist italo-americano.

Alessandro Ariatti