I Rainbow sono sempre stati un progetto di Ritchie Blackmore, inutile dire il contrario. Certo, quando c’era Ronnie James era diverso. Il piccoletto sapeva farsi ascoltare e per quanto l’ex chitarrista dei Purple sia sempre stato un dispotico con dei tratti di follia aggressiva, era abbastanza sveglio da capire l’importanza di quel naneronzolo nel suo progetto, il notevole contributo che era in grado di dare con le sue idee, per i testi, per le melodie e soprattutto per la potenza e la versatilità di quella sua voce possente, lirica e bluuuuus insieme.
Un giorno però, il re degli Elfi lasciò la band e Ritchie fece un’alzata di spalle, si disse: “ok, lo sostituirò e già che c’era rivoluzionò quasi tutta la band. Arrivarono musicisti sempre molto bravi e preparati che portarono il nome Rainbow in alto nelle classifiche (Since You’ve Been Gone, I Surrender) e dopo questi innesti ne seguirono altri e così via e così via perché Ritchie perdeva la pazienza e licenziava tutto e tutti, componeva e riscomponeva sempre più snervato il suo giocattolo con risultati sempre abbastanza buoni, bisogna dirlo, ma i Rainbow dei primi tre dischi erano stati una cosa perfetta, eterna e lui l’aveva capito troppo tardi. Così imboccò di nuovo la via di casa, dove lo aspettava un bel soufflé di rospo da spartirsi assieme a Lord, Peace, Gillan e Glover, tutti in procinto di dare inizio alla prima reunion ‘Telethon’ della storia del Rock, quella di Perfect Stranger.
Un giorno però, il re degli Elfi lasciò la band e Ritchie fece un’alzata di spalle, si disse: “ok, lo sostituirò e già che c’era rivoluzionò quasi tutta la band. Arrivarono musicisti sempre molto bravi e preparati che portarono il nome Rainbow in alto nelle classifiche (Since You’ve Been Gone, I Surrender) e dopo questi innesti ne seguirono altri e così via e così via perché Ritchie perdeva la pazienza e licenziava tutto e tutti, componeva e riscomponeva sempre più snervato il suo giocattolo con risultati sempre abbastanza buoni, bisogna dirlo, ma i Rainbow dei primi tre dischi erano stati una cosa perfetta, eterna e lui l’aveva capito troppo tardi. Così imboccò di nuovo la via di casa, dove lo aspettava un bel soufflé di rospo da spartirsi assieme a Lord, Peace, Gillan e Glover, tutti in procinto di dare inizio alla prima reunion ‘Telethon’ della storia del Rock, quella di Perfect Stranger.
Di quei tre capolavori iniziali, “Long Live Rock ‘n’ Roll” non è certo il migliore, solo il più ‘heavy’ di tutti, oltre a essere l’album dove Ronnie J. Dio stabilisce il personale menù canoro che sottoporrà ai suoi fans nei trent’anni e passa dopo.
“Long Live…” è anche il disco in cui Blackmore riesce a scrivere alcuni dei brani più belli dai tempi di Stormbringer. Dalla classicissima title-track che insegnò l’abc ai Saxon, a “Lady of the Lake” che sarà recuperata da Dio e Iommi su Dehumanizer dei Black Sabbath (col titolo “Master of Insanity”); Gates of Babylon è il riassunto di tutto quello che faranno i Symphony X nella loro esistenza artistica (sì, va beh, un po’ esagero, dai), a Kill the King, sorellina di Highway Star e Burn e vera grande base del pawa metal, ripassata in padella dagli Accept e consegnata poi agli Helloweeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeen! Certo, la ricetta dei Rainbow era molto più blues, educata e austera, senza la vena cialtronesca e a volte ilaro-isterica dei polletti amburghesi e i loro epigoni. Ricordo con grande ammirazione la versione degli Heathen su “Victims of Deception” e molti altri rifacimenti, spesso con un titolo diverso.
Certo, fa riflettere come per Ritchie (ma anche per Page, Townshend, Iommi o Lennon) tutto nascesse e morisse in un solo brano, mentre i grandi che vennero dopo edificarono decine di dischi frugando all’infinito nei quattro minuti e mezzo di una canzone come “Kill the King” o “Man on the Silver Mountain”. I dischi dei Rainbow, di certo non paragonabili a quelli dei Beatles o anche dei Purple, erano però pieni di seme creativo per le fertili menti di pischelli capelloni chiusi nelle proprie stanze a sbattere la testa in su e in giù, tipo Hetfield o Mille Petrozza o Key Hansen.
Lo sto riascoltando ora, mentre ne parlo e sono alla traccia The Shed. Che disco, usciva certa roba in quegli anni! Persino i riempitivi (ci sono anche qui eccome, non prendiamoci per il culo) a distanza di tanti anni, risultano così pregni di energia da tener alto l’interesse dell’ascoltatore sempre e comunque. E non credo sia perché con gli anni le canzoni migliorano. Con gli anni le canzoni di solito muoiono. Provate a sentirvi Dancing Undercover dei Ratt o Bloodrothers dei Dictators e poi ditemi se non è così.
Il disco si conclude con Rainbow’ Eyes, ballata con chitarra, voce e orchestra di 7 minuti e spicci, che per essere una cosa di Ritchie Blackmore è davvero notevole. Come sarebbe a dire? Ve lo spiego subito: per quanto riguarda i riff solo Iommi e Page erano in grado di battere Ritchie Blackmore, ma sulle cose tranquille non era poi così geniale. “Soldier of Fortune” e “Catch The Rainbow” sono buone prove, ma cosa diventano paragonate a “Starway to Heaven” o “Thank You” dei Led Zeppelin o anche solo una “Behind Blue Eyes” degli Who? In questo caso sorprende l’atteggiamento del chitarrista egomane, molto più preso a servire il brano con i suoi fraseggi che a dare l’ennesima stucchevole dimostrazione di bravura. La voce di Dio e i violini portano l’ascoltatore alla commozione. Piangete pure se vi scappa, è una cosa bella da fare, ogni tanto.