La prima volta che vidi i Pantera in tv, li trovai irritanti. C’era qualcosa in loro che proprio non mi convinceva. Era il 1992 e in rotazione c’era il videoclip di “This Love”, avevo 14 anni e per me l’immagine di un gruppo era una cosa troppo importante. Sarò stato gay, non lo so, continuo a chiedermelo anche adesso che ho una figlia e sono sposato, ma per me allora i gruppi dovevano essere fichi pure nell’aspetto, quindi magri e con dei bei capelli lunghi, quindi vedere quel tizio pelato che sbraitava con un microfono in mano non mi piaceva per niente. Anche il batterista ciccione era qualcosa che non potevo proprio tollerare.
La musica? Mi pareva una cosa troppo alla moda, la nuova merda americana, tutto qui. Io adoravo il thrash della Bay Area e se c’era un motivo che mi aveva spinto a suonare la chitarra era poter fare ‘giun giun giun’ anche io un giorno o l’altro. Questa era la sola cosa che non mi faceva fuggire davanti ai Pantera: quell’indugiare della chitarra in accordoni stoppati. Non mi rendevo conto che il modo di suonare di Diamond Darrell (ancora non si faceva chiamare Dimebag) di lì a qualche anno avrebbe rivoluzionato il genere e diffuso come mai prima il concetto di ‘groove’.
Altra cosa che mi aveva lasciato perplesso dell’immagine del gruppo era la diversità stilistica dei quattro musicisti. Erano tutti vestiti in modo diverso. In realtà erano tutti vestiti come chiunque. Non avevano quel finto look casual di tante band thrash che poi diventava una divisa, no, loro mi sembravano proprio vestiti come i ragazzi che potevi trovare ai concerti delle grandi band. Punto. Non mi stupì una dichiarazione di Phil Anselmo, molti anni dopo, in cui diceva che nonostante il successo, girava ancora con gli stessi vestiti da dieci anni. Col tempo la cosa dell’aspetto normale, in contrapposizione alle borchie o al vestirsi tutti di nero dei Metallica, pagò, perché se c’è un elemento che ha sempre avvicinato i Pantera al pubblico è stata la mancanza di barriere nell’immagine. Ma nel 1992 io non lo accettai, c’è poco da dire. Spensi la televisione e mi dedicai al nuovo album dei Death SS. Quando però imbracciai la chitarra, qualche ora dopo, ecco che cercavo di eseguire il finale di “This Love”, con quel giun giun pachidermico che esprimeva al meglio la mia frustrazione esistenziale. C’è poco da fare, ero un ragazzo disperato, terrorizzato dall’esistenza e uno dei pochi modi per sfogare le mie paure era fare ‘giun giun’ con la chitarra.
Pochi mesi dopo comprai “Vulgar Display Of Power”. Io ero un fan degli Obituary e dei Carcass, ma non so come, quel disco non riuscivo a sentirlo tutto, non ce la facevo a sopportare oltre le due canzoni per volta. Era così intenso, incazzato, esasperato, che era impossibile per me restare sdraiato sul letto con un cuscino in testa (come mi capitava di fare quando volevo godermi la mia musica). Dovevo alzarmi e spaccare qualcosa per quanto mi caricava quella musica. Non ero ancora pronto ai Pantera, ma il mio giudizio molto superficiale nei loro confronti, ormai era passato. Mi piacevano, soprattutto il suono di chitarra o meglio, tutto quello che la chitarra faceva, era ciò che avrei voluto fare io. Per me Dimebag Darrell fu come Jimi Hendrix per tanti pischelli degli anni ’60. Lui faceva urlare, fischiare, gemere quella chitarra in modo erotico, sensuale; la faceva gridare di dolore, in altri momenti, come se la troppa birra che ingeriva lo portasse a far male alla donna che amava. Ma l’amava, questo era poco ma sicuro, solo che gli capitava di esprimerlo in maniera brutale.
Quando due anni più tardi uscì “Far Beyond Driven”, la scena metal era cambiata tantissimo. Dickinson aveva lasciato gli Iron Maiden, i gruppi thrash erano spariti dalla circolazione e anche le hair metal band stile Warrant, presenti ancora nel 1992, al bill del Monsters of Rock, erano scomparse dietro al polverone bianco di coca creato con i loro eccessi. Cobain si era suicidato da poco e anche Lane Stanley era sulla buona strada per farlo. Vidi “I’m Broken” alla tv e a quel punto i Pantera mi stavano simpatici. Quando suonavo mi capitava di imitare le movenze di Dimebag e di inventare dei riff che erano sfigate imitazioni dei suoi, ma ancora non riuscivo a sopportare la musica della band.
Comprai il nuovo disco, ma non riuscii a sentirlo. Mi innervosiva troppo, mi faceva incazzare. C’era così tanta energia negativa che al confronto i Morbid Angel mi rilassavano.
Ancora non sapevo poi che i Pantera erano in giro da molto prima del 1992; che prima di Anselmo avevano un altro cantante e che per la prima parte della propria carriera giravano con gli spandex leopardati e i capelli cotonati stile Motley Crue, facendo un power melodico di bassa lega che alla fine abbandonarono per diventare il tritacarne sanguinario che erano negli anni novanta. Passò diverso tempo prima che mi imbattessi nel video di “Cemetery Gates” e fu lì che mi innamorai di loro definitivamente. Rimasi sconvolto nel vedere quella fase intermedia della loro mutazione, con Anselmo che aveva quel fichissimo taglio da moicano e i suoni della chitarra erano così massicci, cicciosi, per non parlare della melodia dell’assolo, il bellissimo arpeggio, il falsetto Halfordiano di Anselmo nel finale. Mi precipitai ad acquistare quel disco e me lo pappai tutto, in un solo boccone. In quell’album i Pantera erano una delle cose più belle che il metal mi avesse mai fatto incontrare. La violenza, il sentimento, il sangue, la rabbia, il cazzosissimo groove, tutti gli ingredienti che la band aveva poi continuato ad aggiungere nei dischi, ma che a quel punto, per me era della misura giusta e con più convinzione rifiutai l’evoluzione dei dischi successivi. Al punto che “The Great Southern Trendkill” non lo sentii nemmeno. Lessi solo qualche recensione in cui i giornalisti dubbiosi iniziavano a dire che forse la band era ormai a un vicolo cieco, aveva continuato a incattivire ed esasperare la propria musica fino a inaridirla che c’era molto impatto e cattiveria in “The Great…”, ma scarseggiavano le idee.
Non saprei, ma di una cosa sono sicuro: a quel punto le cose per il gruppo iniziarono a mettersi male. Phil Anselmo già da qualche tempo tirava su coca e gruppi senza badare a spese, innamorato di cose sempre più estreme, spesso rilasciava nelle interviste dichiarazioni strane riguardo alla band madre. A questo aggiungiamo la pera di eroina che per poco non ce lo portò via e il silenzio in casa Pantera, rotto solo per la pubblicazione di un live non si sa quanto voluto dalla band; insomma le voci sullo scioglimento cominciarono a circolare e sempre più insistenti. Poi arrivò “Reinventing The Steel”.
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Eccolo! |
E’ buffo ma molte persone non sanno nemmeno dell’esistenza di questo disco. Alcuni l’hanno preso per una banale raccolta con qualche inedito, Invece questo è l’ultimo disco dei Pantera in senso assoluto, il loro testamento. E come spesso accade, non chiusero in bellezza. Io non so voi, ma mi appassiono più che ai capolavori, ai dischi contraddittori, quelli che magari precedono il divorzio, gli album che trasudano scontento, quelli dove le canzoni, spesso scadenti, ci raccontano dell’aria che tirava, come le note di un diario sul deragliamento della band che con il senno di poi dona a quei pezzi e a quei riff tutto un significato più profondo e sofferto o anche molto ironico se vogliamo. Una band che se ne esce con proclami di unità e di buoni sentimenti rilasciati in fase promozionale, magari registravano ognuno dal proprio studio di casa, per non vedersi nella stessa stanza. “Reinventing the Steel” è il racconto di un gruppo che non è più coeso. La ragione per cui quell’album non sfonda la pancia come i precedenti è che i quattro ragazzi non avevano più quell’affetto animalesco l’uno per l’altro. C’era Phil Anselmo da una parte, ormai sempre più infelice, al punto di dichiarare a un giornalista che i Pantera erano sciolti per poi rimangiarsi tutto; i poveri fratelli Abbott (Vinnie e Dimebag, per chi non lo sapesse) che cercarono comunque di accontentarlo senza capirlo: per esempio Anselmo introdusse tematiche sataniche e gli altri glielo permisero pur non condividendole. La musica rimase quella più adatta a descrivere un incontro di boxe all’ultimo sangue che la magnificenza di Lucifero, i capri squartati o il sangue grondante sulla pancia scoperta di una dimenante verginella. Anselmo lasciò la band poco tempo dopo. Rex lo seguì nei Down e Dimebag e Vinnie misero su i Damageplan. Fu dura per loro due perché credevano ancora nei Pantera, erano la loro vita e mai avrebbero voluto chiudere la band, tanto ricominciarono da capo sì, ma continuando a fare la stessa musica, si presero un cantante che era una copia di Phil Anselmo. Lui invece si perse nei fumi spettrali e nel fango di New Orleans.
Nel 2004, l’8 dicembre, (il giorno del mio compleanno) un tizio di nome Nathan Gale, mentre i Damageplan si esibivano, salì sul palco e sparò a Dimebag Darrell, uccidendolo. Era un pazzo che, invece di prendersela con sua madre o con qualche prostituta, aveva deciso che la causa di ogni sua infelicità era causata dallo scioglimento dei Pantera. Se io fossi stato al posto suo avrei ammazzato Anselmo, allora. Ma quello era proprio fuori di testa e ogni tipo di ragionamento, per quanto al limite dell’assurdo, è vano. La cosa che ho detto però la pensarono in molti dopo che Dimebag morì. Phil Anselmo prese subito un aereo con l’intenzione di partecipare ai funerali dell’amico ucciso, ma fu accolto malissimo dai parenti. Vinnie Paul gli chiese di non farsi più vedere e la moglie di Darrell gli augurò ogni male possibile. Tutti pensarono e forse pensano ancora che sia colpa sua e non di quel cervello in pappa di Nathan Gale se Dimebag non c’è più. “Se i Pantera non si fossero sciolti, quello scemo sarebbe rimasto un altro scemo urlante ai nostri concerti”; magari è a cose di questo tipo che avrà pensato Vinnie, seduto sulla poltrona di casa, al buio, mentre tracannava una bottiglia di Jack Daniel’s? Ma andiamo! Quel povero Phil Anselmo non ha colpe. Era infelice nei Pantera e lasciarli l’ha reso ancora più infelice. Però io non conosco Phil Anselmo di persona, non so chi sia. So che ha problemi di droga e che beve troppo. Quando lo vidi in una delle ultime esibizioni dei Pantera in Italia, mentre si fracassava la testa colpendosi più volte con un microfono ed era così fuori di zucca che mentre bofonchiava le prime parole di “Walk” faceva la schiuma dalla bocca, direi che la cosa a quel punto fosse a livelli di difficile recupero, ma è ancora vivo e forse adesso non si fotte più con la stessa intensità. Non so. Nelle interviste ai Down che ho visto su Rock TV era ubriaco, senza dubbio. Come tutti gli ubriachi era molto noioso sentirlo parlare. Quanto si tormenterà per la morte dell’amico? In fondo tutti quanti ci ammazziamo di rimorsi, con i se e i ma, fa parte della natura umana, no? Anselmo ha avuto un’infanzia di merda, è cresciuto pieno di odio e molta della sua rabbia è riuscita a sfogarla nella musica, ma altra ancora se la tiene dentro, a rovinargli il fegato, aiutata da alcool ed eroina. Quando vidi il filmato su You Tube, quello in cui Anselmo cerca di esprimere tutta la sua frustrazione, il dolore profondo per la morte di Darrell, ho provato sentimenti contraddittori. Da una parte c’è un uomo infelice, questo è certo, ma dall’altra ho pensato che fosse anche discutibile fare quel videomessaggio, per di più da ubriaco e aprire con “I Would talk of Dimebag ‘Motherfucking’ Darrell!” Ecco, quel “motherfucking” messo lì come intercalare e ripetuto ogni due parole, mentre la voce si impastava sempre di più, non mi ha dato l’idea di un uomo che si redime, si depura ammettendo le proprie presunte responsabilità per la morte di uno degli artisti metal più importanti del secolo e soprattutto di un amico, ma di assistere all’ennesima scenata da coglione di Phil Anselmo, sempre perso nelle sue dipendenze e così confuso mentalmente da non capire nemmeno lui chi sia il soggetto in questione, di capirlo sul serio. Insomma, io ho frequentato gente alcolizzata e piangono spesso, ma quelle lacrime non significano granché, credetemi. La voglia di rimettere insieme la band da parte di Anselmo, i rumors su una imminente reunion con Zakk Wylde alla chitarra, le smentite categoriche di Vinnie Paul non aggiungono molto alla storia dei Pantera. Dicono solo che ognuno continua a gestire il proprio patrimonio artistico ed esistenziale, come può permettersi di farlo. Anselmo crede sia sufficiente prendere un bravo chitarrista amico di famiglia e ricreare la magia dei Pantera; Vinnie preferirebbe andarsi a rotolare sottoterra insieme al fratello piuttosto che permetterlo. Rex è lì in attesa, basta che si suoni. La gente vorrebbe e non vorrebbe. Io spero tanto che non succeda, ma se succedesse lo sopporterei.