Ehi, qualcuno ha realizzato sul serio che è morto Pete Steele? Oppure state aspettando che ricompaia con il suo faccione tra il depresso e l’incazzato sulle copertine delle riviste metal? Non uscirà un nuovo disco dei Type O Negative e, considerato che l’ultimo è del 2007, sarebbe ora di sentire qualcosa di nuovo, no? Ma non avremo niente, mai più. Perché Pete è morto d’infarto, il 14 aprile 2010. Direte, a noi che ce ne frega? Ci dispiace per l’uomo, ma le canzoni dei TON facevano schifo. Obbiezione accolta, ma qui non parliamo tanto di musica. Sto dicendo che uno dei personaggi più ironici e complessi che il metal abbia mai avuto se ne è andato per sempre, questo vale la pena sottolinearlo. I titoli provocatori delle ultime uscite, (“Life is Killing Me”, “Dead Again”) non facevano che promettere quella che per tutti è stata una morte improvvisa e difficile da credere, nonostante il vecchio Pete abbia passato la metà dei suoi anni a farsi del male con droghe e alcool.
La sua dipendenza dalla coca non è mai stata un segreto e tanto meno i galloni di super alcolici e vino che ingurgitava per non scappare via dal palco. Infatti il “bestione” alto più di due metri che incuteva così tanto timore a tutti noi, come ammise in un’intervista al Ventriglia di Metal Hammer nel 1999, era solo “un ragazzino rinchiuso in un grande corpo, pauroso di tutto. Con l’unico sogno di nascondersi, mettersi in un angolo, succhiarsi il pollice, non rispondere a nessuno e non vedere più il sole”
Per realizzare il suo sogno nero è stato costretto ad andarsene. Adesso Pete non c’è più e, anche se sono sempre stato un ammiratore della sua musica, la cosa che mi mancherà di più sarà leggere le sue dichiarazioni deliranti in quasi tutte le interviste che rilasciava. Erano una parte insopportabile del suo lavoro e lo ammetteva con candore a tutti i giornalisti che aveva davanti, poi però ecco che rifilava una serie di aneddoti grotteschi sulla sua vita recente, oppure considerazioni ultra-polemiche su qualche collega, vecchio o giovane che fosse. Erano uno spasso. Anche adesso, se mi capita per le mani un vecchio numero di Metal Shock con i Type in copertina, vado subito a leggermi l’intervista. Pete Steele era uno che non si risparmiava mai. La sua materia prima era sempre lui, la sua vita. Le canzoni, così controverse, gli valsero accuse di misoginia e omofobia, ma raccontavano solo con estrema sincerità episodi della sua vita sentimentale che non bisognava generalizzare.
Se ci ripenso, mi vengono in mente le uscite da matto, tipo sconsigliare di acquistare l’ultimo disco dei TON perché era venuto uno schifo. Da pazzi, però alla fine perché no? Era un personaggio e i suoi fans hanno imparato presto come prendere le sue uscite autolesioniste. La vita è tutta da ridere, questo ripeteva in continuazione, anche se poi i brani che componeva con il suo gruppo erano colonne sonore per un suicidio lento e doloroso, tipo tagliarsi le vene, cosa che lui fece per colpa di una donna, un giorno che era finito davvero a secco di serotonina.
Quanto lo fecero soffrire le femmine, quanto contribuirono a ucciderlo. E pensare che soprattutto all’inizio degli anni ’90, dopo quella mossa disastrosa della pubblicità per Playgirl e poi graziea brani tipo “My Girlfriend’S Girlfriend”, era diventato una specie di nuova incarnazione del diavolo per le femministe, ma le cose stavano diversamente, come sempre.
Tanto per cominciare, la pubblicità del servizio su Playgirl fu tutta colpa degli altri componenti della band. Pete si presentò in sala prove e riferì quanto gli avevano proposto, chiedendo piuttosto angosciato cosa avrebbe dovuto fare, se accettare o no. Gli altri risposero di sì, che sarebbe stata una ottima pubblicità per la band. Lui si fidava molto dei suoi compagni e quindi girò i tacchi e se ne andò lasciandoli lì a ridere, increduli che ci fosse cascato e intenzionati a prenderlo per il culo il resto dei suoi giorni se davvero l’avesse fatto. Lui lo fece sul serio.
E loro non ebbero pietà fino all’ultimo giorno. Però avevano ragione Kelly e gli altri, fu uno spot fenomenale e anche adesso, se parli di Pete Steele, ecco che sei costretto a ricordare di quel servizio fotografico che non gli fece guadagnare grande consenso nel mondo femminile però lo rese celebre e molto desiderato tra i gay, al punto di ricevere un sacco di proposte. La rivista Playgirl, Steele lo scoprì troppo tardi, aveva soprattutto un pubblico di uomini; solo il venti per cento erano donne e questo fece diventare un incubo di qualche anno quella che comunque si rivelò la mossa promozionale più azzeccata in assoluto.
Pensare poi che di voci sulla sua morte ne sono circolate tante negli anni passati. Quella volta che sparì senza lasciare traccia per qualche tempo e si parlò di un cancro in fase terminale, invece era solo finito in galera per un breve periodo, poi si era sottoposto a una terapia riabilitativa per via della sua incarnita dipendenza da alcool e droghe.
Steele odiava più di tutto la vita balorda dei tour, quella che il music business lo costringeva ad avere. “Te ne vai in giro per il mondo, ma assai di rado puoi goderti le città in cui suoni. Ho saputo della morte di mio padre poco prima di salire sul palco”. Le canzoni che scriveva erano sincere fino alla drasticità: “Everything Dies”, “Everyone I Love is Dead”, “I Don’t Wanna Be Me”, “Life is Killing me”, “Dead Again”. Era il tipo di musica che io definisco spartiacque. Sono brani di un pessimismo cancrenoso ma solo in apparenza, sotto le dichiarazioni roboanti su quanto la vita faccia schifo, l’amore sia una schiavitù che uccide e di quanto le cose belle durino sempre meno di quelle brutte, in realtà c’era una profonda autoironia. Le dichiarazioni offensive verso il gentil sesso in tutte le sue forme, sia etero che omo, erano sfoghi oltre che genuini anche provocatori. La poetica di Pete Steele era prima di tutto un test per vedere chi è stupido e chi no, chi è superficiale e chi riesce a vedere oltre la superficie, soprattutto chi sa vivere e chi non sa morire. Perché vivere è morire, ma la maggior parte degli esseri umani sembra non volerselo fare entrare in quel buco di culo che ha al posto della testa.
Negli ultimi anni della sua vita, Pete aveva riesumato il suo vecchio gruppo, i Carnivore, di cui nessuno sentiva la mancanza a parte lui. Soprattutto aveva scoperto la fede. Era cresciuto secondo un’educazione cattolica ma si era sempre dichiarato ateo, nonostante le accuse di satanismo e stronzate simili. La fede si era rivelata una nuova fonte di ispirazione per la sua musica, anche se non aveva intaccato la vena depressa e pessimista di chi vive in un mondo che continua a cadere, fino a quell’aprile del 2010 in cui almeno Pete smise di andare giù e forse salì in cielo a jammare con tutti i grandi della musica come in “Halloween in Heaven” dedicata a Dimebag Darrell. Era un grande artista e, per quanto la proposta dei TON non abbia mai entusiasmato il pubblico italiano, fatto soprattutto di defenders, è innegabile che gli elementi che Steele e i suoi riuscirono a far convivere nei loro album erano una scommessa ardua sulla carta, ma vinta nello stereo. Come puoi mettere insieme i Beatles ed i Black Sabbath? Eppure in dischi come “October Rust” e “Bloody Kisses” tutto questo riesce eccome. I Type O Negative sono morti, ma sono stati vivi fino alla fine, artisticamente. Quanti zombi siamo invece costretti a sopportare, mantenuti in vita dalla macchina invisibile dello show business? I nomi fateli voi, io sono stufo di ripeterli. Quando sfoglio Rolling Stones mi sembra di vedere il fotoreporting dell’ultimo film di George Romero, per voi non è lo stesso?