Per molti anni questo è stato l’ultimo disco degli Iron Maiden, quelli veri. L’ultimo decente, l’ultimo qualcosa. Quante volte l’abbiamo riascoltato, prima increduli, poi depressi, poi rassegnati. Era il testamento prima dell’addio di Bruce; la fine di un ciclo, la fine di un’era. L’album degli Iron Maiden prima che la baracca crollasse in modo fragoroso ed irreparabile, l’ultimo prima che Bruce si buttasse in quella carriera solista rappresentativa più che altro della sua incoerenza artistica e squisitamente umana. L’ultimo album dove si sentono le chitarre; quello in cui Gers e Murray mantengono ancora un briciolo di decenza prima di lasciarsi andare in modo indegno, come testimoniano quei due live atroci: “Real Live One” e “Real Dead One”. Poi si sono rimessi insieme in quella allegra quanto inverosimile rimpatriata e, invece di cacciar via a calci nel culo almeno quel pippone di Gers, se lo sono tenuto, mentre i poveri Blaze e Paul Di Anno sono stati abbandonati al loro destino di grassi, pelati e tristi alcolizzati.
Oggi che infornano album così deprimenti e non sembrano avere la minima intenzione di farla finita, “Fear of the Dark” rappresenta una specie di oasi felice, quando anche se la carriera della band aveva preso una china bruttina, questo era nulla in confronto a ciò che sarebbe venuto fuori dopo.
“Fear of the Dark” è l’ultimo album in cui la durata media delle canzoni non sfori i sei minuti: poi tutto divenne quel prolisso polpettone lisergico da fare invidia ai My Dying Bride, che nella dilatazione delle canzoni ha in gran parte sprofondato il proprio stile. Da più parti si tende a considerare “Fear…” come un grande album e invece si tratta di una manciata di brani riempitivi in mezzo a tre classici minori della band: “Be Quick or Be Dead”, “Afraid to Shoot Stranger” e “Fear of the Dark”.
Secondo qualcuno fu un ritorno convincente dopo lo scivolone di “No Priyer for the Dying” ma, in realtà, gli Irons riproposero lo stesso identico disco in barba a tutti quanti. In alcuni momenti, la struttura e i giri di chitarra sono così simili a quelli del lavoro precedente che stupisce come mai nessuno abbia spaccato il cd sui denti storti di Bruce Bruce. Prendete per esempio “Holy Smoke” e “From Here to Eternety” e ditemi se, a parte l’intro e il ritornello, non si tratta della stessa canzone. Anche la posizione in scaletta è la stessa. Che tipo di evoluzione c’è poi tra “Hooks in You” e “Judas Be My Guide” oppure tra “The Assassin” e “The Fugitive”?
Per quanto riguarda poi i tre classici sopra menzionati, direi che “Be Quick…” è la solita riedizione di “Aces High”, anche se ancora non in grado di buttare anche l’ascoltatore più ottimista nella totale prostrazione, come accadrà dopo con “Man On The Edge”, “Futureal” o “Wicker Man”. “Afraid…” è senza dubbio interessante, non fosse per la somiglianza strutturale con “No Prayer…” soprattutto l’accelerazione nel finale.
C’è una grande differenza però tra il lavoro del 1992 e quello del 1990: la prestazione di Bruce Dickinson è più scadente, interpretata col senno di poi come segnale inequivocabile che ne aveva le palle piene. Su “Afraid…” per esempio è costretto a muoversi su un registro troppo basso per lui e , non potendo ululare come al solito, avrebbe potuto salvarsi puntando sull’interpretazione, con il risultato che sembra un vecchio allucinato che racconta i tre porcellini a dei nipotini che reputa un po’ imbecilli.
Poi c’è “Fear of the Dark”, l’unica canzone davvero valida di tutto il disco, anche se a partire da qui i Maiden seguiteranno a concepire i brani più per giocare al karaoke con il pubblico che altro, costellando quasi tutte le composizioni di quei melodiosi fraseggi che inneggiano al canto liturgico curvaiolo a una sola vocale – tipo “Heaven Can Wait” – che, per carità, rendono i concerti molto emozionanti, ma c’entrano poco o nulla con la grande musica, soprattutto in cameretta, seduti in poltrona, con gli occhi aperti sulla propria libreria piena di ninnoli e libri del liceo o sul poster di Victoria Silvstedt d’annata.
Secondo qualcuno fu un ritorno convincente dopo lo scivolone di “No Priyer for the Dying” ma, in realtà, gli Irons riproposero lo stesso identico disco in barba a tutti quanti. In alcuni momenti, la struttura e i giri di chitarra sono così simili a quelli del lavoro precedente che stupisce come mai nessuno abbia spaccato il cd sui denti storti di Bruce Bruce. Prendete per esempio “Holy Smoke” e “From Here to Eternety” e ditemi se, a parte l’intro e il ritornello, non si tratta della stessa canzone. Anche la posizione in scaletta è la stessa. Che tipo di evoluzione c’è poi tra “Hooks in You” e “Judas Be My Guide” oppure tra “The Assassin” e “The Fugitive”?
Per quanto riguarda poi i tre classici sopra menzionati, direi che “Be Quick…” è la solita riedizione di “Aces High”, anche se ancora non in grado di buttare anche l’ascoltatore più ottimista nella totale prostrazione, come accadrà dopo con “Man On The Edge”, “Futureal” o “Wicker Man”. “Afraid…” è senza dubbio interessante, non fosse per la somiglianza strutturale con “No Prayer…” soprattutto l’accelerazione nel finale.
C’è una grande differenza però tra il lavoro del 1992 e quello del 1990: la prestazione di Bruce Dickinson è più scadente, interpretata col senno di poi come segnale inequivocabile che ne aveva le palle piene. Su “Afraid…” per esempio è costretto a muoversi su un registro troppo basso per lui e , non potendo ululare come al solito, avrebbe potuto salvarsi puntando sull’interpretazione, con il risultato che sembra un vecchio allucinato che racconta i tre porcellini a dei nipotini che reputa un po’ imbecilli.
Poi c’è “Fear of the Dark”, l’unica canzone davvero valida di tutto il disco, anche se a partire da qui i Maiden seguiteranno a concepire i brani più per giocare al karaoke con il pubblico che altro, costellando quasi tutte le composizioni di quei melodiosi fraseggi che inneggiano al canto liturgico curvaiolo a una sola vocale – tipo “Heaven Can Wait” – che, per carità, rendono i concerti molto emozionanti, ma c’entrano poco o nulla con la grande musica, soprattutto in cameretta, seduti in poltrona, con gli occhi aperti sulla propria libreria piena di ninnoli e libri del liceo o sul poster di Victoria Silvstedt d’annata.
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Giudicare ora canzoni come “Weekend Warrior” o “Chains of Misery”, sarebbe davvero una cosa crudele. Si tratta di autentico pattume, morto poco dopo essere nato anche se sono certo che qualche povero cristo di metallaro le avrà nel cuore. Sono brani degni del primo lavoro solista di Bruce, quel modestissimo “Tattoed Millionaire” che secondo qualche coglione è un notevole esempio di hard melodico onesto e genuino. “Fear of the Dark” è anche il primo album in cui un lento dei Maiden nasce come tale. Di più, “Wasting Love”, è un brano che parla d’amore – in modo piuttosto incomprensibile, a dire il vero, ma non importa – una ballatona alla Scorpions che inizia riecheggiando il ritornello di “Il cielo è blu sopra le nuvole” dei Pooh e che rappresenta uno dei momenti più comici di tutta la discografia della combriccola di ferro. Gers ha scritto questo e molti altri brani del disco, mostrando la sua mediocrità non solo come esecutore ma anche nelle composizioni: è suo tutto l’armamentario hard rock degno dei King Kobra e sono sicuro che, al suo posto, si sarebbe molto divertito quel palle mosce di Adrian Smith, che avrebbe tanto voluto suonare nei Def Leppard, invece che negli Irons.
Per parecchio tempo sono stato convinto che avessero scelto Gers solo per la sua somiglianza con Eddie.
Per parecchio tempo sono stato convinto che avessero scelto Gers solo per la sua somiglianza con Eddie.