Successe pressappoco la stessa cosa con gli Eyehategod, una maglietta indossata da Anselmo in tour e io mi fiondai subito alla ricerca di tutto lo scibile sulla band di Mike Williams. Mike Williams il tossico, Mike Williams l’eroinomane, Mike Williams in prigione e la conseguente campagna mediatica per farlo scarcerare. Rispetto al vecchio Mike, Henry Rollins rappresentava per me la parte buonista dell’espressività hardcore, quell’hardcore di cui era intriso il primo disco della band di New Orleans. In The Name of Suffering: nel nome della sofferenza, un dolore troppo acuto, troppo sofferente affinché io potessi solo coglierne lontanamente il significato.
Damaged invece era tutt’altra storia, mi catturò sin da subito, a partire dalla copertina, quel pugno che si infrange contro lo specchio mi ricordava molto da vicino un’altra copertina, quella di un disco che conoscevo a memoria già da tempo: Vulgar Display of Power. Rollins però a differenza di Anselmo e Williams, le altre mie due guide spirituali prese a modello durante il periodo adolescenziale, aveva su di me un’attrattiva di tipo diverso, più che altro paternalistica. Henry era quello che ti diceva cosa era giusto o sbagliato fare: mangia sano, niente droghe, lotta duramente, ma mai in silenzio, urla il tuo dolore al mondo intero, perché il mondo sarà anche un posto terribile e tu potrai anche sentire l’irrefrenabile voglia di spezzarti in due, ma Henry è ancora una volta lì, a gridartelo in faccia: do you feel it? Rollins era la sintesi perfetta tra il machismo dei Pantera e il canto sofferente degli Eyehategod, due facce della stessa medaglia riunite in un’unica possente figura trasudante determinazione e sacrificio.
La frattura che causò Damaged nel mondo della musica fu solo il primo tassello di Rollins e della sua guerra personale. Come una fenice risorge dalle proprie ceneri, la stessa fenice che da sempre identifica il logo degli Eyehategod. Dalla resurrezione alla dichiarazione di guerra contro tutto e tutti, incluso se stesso: My War, appunto.
Alla Rollins Band ci sono arrivato solo anni dopo, precisamente con Life Time, forse il disco più riuscito, sincero, onesto e diretto di tutta la carriera dell’uomo. Life Time esala umanità da ogni solco ed è il ritratto perfetto di un uomo che brucia dentro di un fuoco così caldo da non riuscire più a riconoscere neanche la propria immagine allo specchio. Completamente solo, avvolto in un’oscurità incandescente, Rollins è uno spettro che cammina sulla Sunset Boulevard, disperato. La domanda sorge spontanea, ieri come oggi: what am i doing here? Ed il mantra ricomincia, se sei vivo, se sei uno di noi, se ci senti e ci vedi, se sai cosa significa camminare su di una strada deserta di una città in cui sei solo un minuscolo puntino disperso tra le luci delle auto che ti sfrecciano accanto. If you’re alive, you know what i mean, se almeno una volta ti sei ritrovato solo a fissare l’oscurità di una stanza vuota, lo squallido pallore delle pareti di una casa che non conosci, in compagnia di qualcuno che non conosci, ci sei, puoi capirlo e nella poetica del signor Garfield non puoi far altro che identificarti e lasciarti trascinare dal blues delirante di Gun In My Mouth Blues, vero e proprio sunto di tutto ciò che è stato, di tutto ciò che è e sarà Henry Rollins.
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Non sta guardando te, ma le tue tette |
(Giovanni Pontolillo)