LA BIBLIOTECA DI CHTULHU: IL DECAMERON

Il Decameron mi riporta alla mente una serie di ricordi non proprio gradevoli, riguardanti la mia breve e infruttuosa esperienza universitaria. Diedi il primo esame proprio sulla raccolta del Boccaccio e presi 23. Potrei anche raccontarla più in dettaglio, ma sarebbe doloroso per me e per i pochi volenterosi che stanno provando a leggere questo articolo, quindi sintetizzo dicendo solo che fu uno schifo totale. Non solo fui una vera chiavica di studente, ma anche l’università La Sapienza, quel rudere pieno di zecche, cecchini psicopatici e futuri baristi e cameriere notturne, è un pozzo nero di speranze adolescenziali. 
Ah, l’università, che delusione! Io pensavo che per leggere e farsi una cultura bisognasse passare di lì, in fondo è quello che ci insegnano fin da quando cominciamo a camminare. La laurea serve se vuoi essere qualcuno! Forse era così fino al 1965, oggi non più. Se invece di mandarmi a studiare, a quindici anni mi avessero fatto imparare un mestiere, l’idraulico o il falegname, adesso cadrei in piedi e non sarei l’ennesimo diplomato o laureato incapace di fare lavori manuali, disoccupato e che passa il suo tempo a sperare di racimolare qualche soldo scrivendo articoli su internet. 
Siccome avevo fame di conoscienza, mi iscrissi a Lettere, convinto di guadagnarmi la vera cultura. Invece scoprii che l’università è l’ideale per farti passare per uomo colto, non per diventarlo davvero. Prendiamo il Decameron. L’esame era sulla lettura del testo, ma bastava conoscere quello che il professore spiegava in aula, (in tutto dieci o dodici. Ciappelleto, Andreuccio da Perugia, il vaso di Elisabetta, Federico e il falcone, Frate Cipolla), bastava sapere quello ed eri pronto a dare l’esame. C’erano poi da studiare una serie di saggi sul Boccaccio, più una storia della letteratura italiana fino al ’300 e altre opere fondamentali tipo “L’Inferno” di Dante, le “Rime” di Cavalcanti e il “Canzoniere” di Petrarca, ma nessuno leggeva tutte quelle cose. Gli studenti si limitavano a ingurgitare gli appunti presi a lezione, rileggevano per bene le novelle scelte e spiegate dal prof., ed erano tutti pronti a far finta di conoscere a fondo una delle maggiori opere della letteratura mondiale. 
Sono passati tanti anni da quell’esperienza e ho avuto modo di riprendermi, di ricredermi. Non su La Sapienza, ma sul Boccaccio. 
Eccheme qua!
Ho recuperato il Decameron da un vecchio scatolone e me lo sono letto tutto, dalla prima all’ultima novella. Cosa posso dire? Ce ne sono di stupende, ma ce ne sono anche di mediocri, noiose, stupide e caotiche, riuscite per metà e non riuscite per niente, però cazzo, leggete soprattutto quelle, così non avrete più il timore di misurarvi con uno degli autori più importanti della letteratura occidentale. Era un grande, ma non infallibile, come apparirebbe se uno si limitasse a leggere le solite novelle famose e a sentirne parlare dai professoroni che sembrano voler fare di tutto per mantenere il pubblico alla larga dai grandi libri e non il contrario; un po’ come i preti tenevano a distanza il volgo dalle sacre scritture prima della Riforma Luterana. Incredibile, anche Boccaccio toppava a volte, come tutti, non riconosceva la mediocrità che lui stesso produceva. Non solo, per arrivare a cento novelle, fu costretto a copiare dalla tradizione orale ma anche da opere preesistenti. Veri plagi impuniti, come per “La Metamorfosi” di Apuleio, da cui scippò senza far complimenti uno degli episodi più divertenti, cambiandolo giusto un pochino. 
Bisogna dire però che era uso comune. Non esisteva ancora il diritto d’autore e tanti scrittori illustri, nei secoli successivi, saccheggiarono il Decameron, senza alcuno scrupolo. 
E devo dire che senza la fregola di doversi appuntare tutto quel colto sproloquiare del vecchio docente, da rivomitare sulla cattedra all’esame come pappagallini tisici all’ultimo stadio, il Decameron è un vero piacere. Che senso hanno tutte quelle dotte considerazioni sul cibarsi del cuore in letteratura o sulla simbologia religiosa insita in una novella in cui un tizio vuole scoparsi una figona stupida come una quaglia e le fa credere di essere l’Arcangelo Gabriele? Invece di invogliarci a leggere quelle storie, ce ne allontanano? Riprendiamoci la grande letteratura, Dante, Shakespeare, Milton, credetemi, sono uno spasso assicurato e questo libro, il Decameron, è una delle opere più goduriose che ci siano, per voi e i vostri testicoli avvinazzati dalla tv all’ultima spiaggia satellitare. 
Cosa credete che sia il Decameron? Da dove pensate che venga tutto il cinema pecoreccio degli anni ’70? Questo libro non ha ispirato solo Pasolini, ma anche Nando Cicero, Sergio Martino e tutti i principali autori della commedia sexy che tanto amiamo. “Metti lo diavolo tuo ne lo mio Inferno”, da dove credete provenga? E se qualcuno è ancora convinto che sia cinema di serie Z, dia un’occhiata a quella schifezza di “Decameron Pie”. Come al solito, quando i giganti americani si mettono a sfidarci sullo stesso campo, fanno sempre una pessima figura. 
Il canovaccio ricorrente delle novelle del Decameron è che uno vuole scoparsi una, ma c’è di mezzo un impedimento. Ecco qua. Ogni volta si parla d’amore e forse lo è, ma rispetto a Dante, Petrarca e i poeti Stilnovisti, Boccaccio vuole fare sesso e in grande abbondanza, come oggi professa il buon vecchio Tinto Brass, altro epigono di scuola Boccaccina. 
E non mi stupirei se tra seicento, settecento anni, nelle università, il nostro prof. non sia ancora lì, a spiegare i film erotici di Fernando Di Leo. 
Il Decameron, chi ha il coraggio di avvicinarcisi? E’ pesante, cazzo. Sono due volumi, c’è un’introduzione lunga settanta pagine. Ma voi saltatela, teste di cazzo. Andate subito al sodo. Si inizia parlando della peste e poi ci si ritrova a seguire le sorti di questo peccatore che frega un frate poco sveglio e riesce a diventare santo. Nel Decameron c’è sempre qualcuno che frega qualcun altro, l’apice è la “tetralogia del coglione”, con protagonista il povero pirla per antonomasia, Calandrino, vittima di scherzi umilianti a opera dei suoi due amici, i gay latenti e inculatori metaforici, Bruno e Buffalmacco; ma ci sono così tanti gonzi e gonze, così stupidi da meritare la punizione crudele di chi glielo mette nel di dietro e non solo in senso lato. Il Decameron è stato scritto per la gente e parla della gente che fa cose interessanti come tradire, uccidere, scopare sia con i vivi che con i morti. Credetemi, c’è più movimento dentro alle tombe che sui letti e grazie a un necrofilo, una donna vittima di morte apparente, si salva. C’è anche la stregoneria, a volte finta e usata per imbrogliare i creduloni, ma altre volte verissima, terribile e meravigliosa. Ogni perversione poi è rappresentata da un personaggio: abbiamo la coprofilia, la bestialità, l’incesto, il cannibalismo. Non è solo una faccenda di sesso e violenza, anche se il 70% delle novelle parla di questo: si mangia anche la merda di cane, si picchiano le donne perché è il solo modo di farle rigar dritte se non ubbidiscono al marito, ma si dice anche che se non ti scopi a dovere tua moglie, lei ha ragione se poi ti mette le corna con un bel fustacchione. Non finisce qui, si tagliano teste e si conservano in memoria di amori finiti, come ne “Il vaso di Elisabetta”, una delle storie più orride che siano mai state raccontate, eppure una delle più commoventi e poetiche novelle della letteratura di tutti i tempi. Stupisce anche il coraggio di Boccaccio nel criticare la Chiesa di Roma e il clero: frati e preti allupati, suore infoiate, chierici stupidi o seduttori, intelligenti o fessi, ma sempre pronti a mettere la fava da qualche parte. C’è un traffico incessante dentro e fuori i conventi. Curioso però che proprio in un testo così anticlericale sia presente un ritratto di Papa Bonifacio VIII, per nulla negativo, ma quasi simpatico. E a proposito di personaggi storici, ce ne sono una marea, da Guido Cavalcanti al mitico Ciacco, gloria fiorentina che fu immortalato anche da Dante nel girone dei golosi. Cecco Angiolieri, che risulta meno “dritto” di quanto sembri dai suoi componimenti (Si’ fossi foco…). Ci sono anche degli spunti avveneristici, basti pensare a un re che vuole farsi tutte e due le figlie di un nobile, ma al contrario di certi politici, pur potendo farlo, richiamato alla lucidità da un consigliere che gli fa temere il ridicolo, vi rinuncia e le sposa a due bei giovani; queste cose succedevano ai bei tempi in cui non esisteva il Viagra e i vecchietti se ne stavano buoni buoni sulla loro poltrona, tanto non avevano scelta. 
Capitolo a parte per l’ultima novella. E’ molto interessante perché è la peggiore di tutta la raccolta. Non è solo brutta, è anche idiota ma se ne accorge solo il lettore, non gli irritantissimi giovani narratori della cornice. Questi giovani, solitamente, dopo essersi raccontati ogni storia, ne discutono, a volte criticando e altre “commendando” il comportamento dei personaggi. Qui però non battono ciglio e quindi è come realizzare all’ultimo minuto di aver passato delle splendide vacanze con una manica di imbecilli. Lo so, è solo per via dei secoli che ci dividono dal libro. Il modo di trattare e considerare le donne non è lo stesso di oggi e per quanto si parli in modo molto coraggioso del sesso e del diritto che anche le donne hanno di esigere il sollazzo della loro carne, alla fine siamo sempre nel medioevo e le donne sono portatrici di sventura, sanno solo sciupare l’esistenza ai maschi, vanno pestate e punite se non sopportano la volontà dei loro amanti. Quindi, come la prima novella, quella di Ciappelletto, che risulta viva, sorprendente e ancora in grado di parlare al mondo di oggi, l’ultima è morta, incastonata in una morale e una logica che sono defunte con gli uomini di quegli anni. 
(Francesco Ceccamea)