Avevo 10 o 11 anni quando comprai “Like A Virgin“, non ricordo se lo presi proprio l’anno che uscì (1984) o l’anno dopo. E fu anche il mio primo vinile mai acquistato in assoluto; avevo solo dei 45 giri a casa e sono sicuro che non volete veramente sapere di quale musica si trattasse. Per la cronaca, il mio secondo album fu un regalo (su richiesta), le sigle dei telefilm di Mediaset, tipo “Fivelandia numero qualcosa”, 5 forse, con le figherrime sigle dell’A-Team, di Simon & Simon, Magnum PI  e roba così (purtroppo non so che fine abbia fatto quel vinile!).

 
          (….non è proprio l’A-Team, però l’atteggiamento è quello giusto)
 
Dico questo per dire che nasco come bimbo poppettaro e che, almeno fino ai 14 anni, il massimo del rock duro per me era Bruce Springsteen; poi dopo arrivarono gli Iron Maiden ed entrai nella cerchia di “quelli che ce la sanno lunga”. La Madonna (del Michigan, non di Lourdes) la incontrai in tenera età, fu la prima “cantante” alla quale mi appassionai in modo naturale, sincero, autonomo, non indotto da influenze altrui, e me ne innanmorai subito. Non l’ho più abbandonata, ho seguito ogni suo passo discografico, anche nei periodi di carenze di idee dissimulate dalla ninfomania (i vari “Erotica” e “Bedtime Stories“, album oggettivamente bruttarelli). Ogni suo nuovo lavoro lo compro e lo ascolto con attenzione incondizionata, senza mai rimanerne deluso. Ricordo ancora l’epoca mitica del suo primo concerto italiano, a Torino (“siete caldi? Ànchio!“), era il 1987 (il tour di “Who’s That Girl“), avevo appena 13 anni e lo spettacolo lo seguì in tv…altri tempi, la Rai lo dava in diretta. 
 
Ma che è tutto ‘sto preambolo su Madonna? Dove sono finiti i Carcass e i Prostitute Disfigurement? Sono in stand by, oggi si parla della Ciccone, della mia Ciccone, perché negli anni ’80 furoreggiava nel mio stereo. Ecco, se dovessi riassumere quell’intero decennio musicale in un sola canzone, 4 minuti soltanto che possano contenere tutta la mia adolescenza, se dovessi scegliere la canzone del mio funerale (esticazzi) risponderei: Madonna “Live To Tell“. Dite quello che volete, ma per me non esiste altro che possa reggere il paragone. Quel pezzo è immenso, struggente, commovente, malinconico, toccante, doloroso. Nel videoclip, la sfrontata, trasgressiva, provocatrice Madonna indossa quell’innocuo vestitino a fiorellini della nonna, sfoggia la permanente di Orietta Berti, e sta seduta nella penombra a raccontare una storia di sofferenza, delusioni e bugie, inframezzata dalle scene del film “At Close Range” (“A Distanza Ravvicinata“, in Italiano), con Sean Penn e Christopher Walken, un film sul rapporto padre/figlio e tutta la criminalità che ci sta nel mezzo. Madonna non fa balletti e coreografie glamour, non si concia come una prostituta di bordello, non fa elogi del materialismo, non mette in scena la religione piaciona da supermercato di “Like A Prayer“, ma “recita” accoratamente solo col volto e con le parole della canzone, una ballata che ti spezza il cuore.
 
                                                                                     (…e te lo spezza per sempre)
 
Nel 1986 “Live To Tell” fu l’ottavo singolo più venduto al mondo, il quinto più venduto in Italia. Ma io so che nessun altro pezzo lo ha mai eguagliato dal 1986 ad oggi, quali che siano le cifre di vendita, le emozioni non si comprano con Mastercard. Se penso a me stesso ragazzino, e a tutti i fotogrammi di quegli anni che mi passano davanti, non c’è momento che non trovi la sua sintesi in “Live To Tell“. Nostalgia? Si certamente, di quella da lacrimoni; dai, smettetela di citare a percussione “Here I Go Again“, “Hysteria“, “Home Sweet Home“, “Carrie“, “Still Loving You“, “Piccola Katy“, non è questione di trovare un’altra ballad che possa tener testa a “Live To Tell“, perché pensare a quella canzone in termini di “ballad” è riduttivo; quella è la vita che scorre, i grandi perché, il senso delle cose, la profondità delle emozioni, il pianto e la gioia, la verità ed il buio, mica l’aria da bambina con la maglietta fina, le labbra salate, il fuoco e quattro risate. Non scherziamo, è come entrare in un tempio, si porta rispetto anche se sei di un’altra religione, perché lì dentro c’è la spiritualità e quella non ha sesso, né colore, né pertinenza geografica.
 
              (e l’articolo finisce in pieno stile anni ’80, taaaac!) 

(Marco Benbow)