I RED FANG GIA’ FINITI? BUT A COUPLE OF BALLZ!

I Red Fang! Ma chi, quei barboni puzzoni, ciccioni che hanno fatto quel video in cui si costruiscono le armature con le lattine di birra e bevono un’infinità di birra per avere latta a sufficienza e andare da
Sì, sì, sì, sì, sì, sì, sì, ok, hai capito. Sono quelli. Red Fang: i cuginetti dei Mastodon, il pregiato esemplare di una tendenza che va verso la saturazione benedetta, liberatrice di ogni male. Festeggiati, salutati come nome nuovo da sbattere in faccia ai metallari true con un primo disco lanciato da quel video genialoide di cui tutti hanno un ricordo molto vivido. Sì, perché i Red Fang non sono i due dischi, ma i video, intelligenti, scazzati, irresistibili, comicissimi, freschi, di metal come ci piace che sia. Adulto. 
Cazzo, sono passati quasi quarant‘anni dalla sua nascita, è ora che il genere inizi a praticare l’autoironia. 

Non è più il ragazzino esaltato di fine anni ‘70, 
intento a raccontare fiabe di draghi, demoni, guerrieri e spade di fuoco, 
non è più l’adolescente malato di fica e di sensazioni strong degli anni ’80, 
né il giovane adulto depresso, necrofilo, estremista degli anni ’90 e tanto meno 
l’uomo in crisi di mezza età dell’autoreferenzialità beota degli anni ’00. Oggi il metal deve essere sornione, scanzonato, con la panza e la voglia di mandare tutto quanto affanculo. 
Ecco cosa è il metal di oggi, tranne alcune regioni regressive. Il metal dei Red Fang è quello che avanza verso il domani. 
Il domani…
È il Metallo del chissenefotte: se sono grasso, se sono sporco, se sono brutto, se suono male, se bevo troppo e non ho un cazzo di progetto creativo, io attacco la spina, stappo una birra e suono finché spando in terra così tanto sudore da mandare in cortocircuito questi jack scorticati. 
Eppure non è tutto qui. Coloro che ieri si riempivano la bocca con i Red Fang, spuntati dal nulla ma così fichi, oggi li decretano finiti già con il secondo disco, così caricato di aspettative che non poteva far altro: deludere. Eppure, sebbene si sentano le influenze di tante band, quali Mastodon, Queens Of The Stone Age, Melvins, Alice in Chains, High on Fire, Kyuss (mica li conosco tutti, sto citando l’infinità di nomi riportati nelle recensioni stroncatorie che ho letto in giro per la rete) e sia evidente la mancanza di almeno quattro altri grandi classici per il nuovo millennio metallico, non c’è un’idea che sia una, in grado di lasciarci intravedere altre potenziali svolte allo stoner/sledge/groove/southern…(insomma il metal che non si lava e non si cambia i vestiti) oltre a quella dei Baroness. SECONDO ME
ME!
siamo di fronte a un dignitosissimo secondo disco, fatto di canzoni scritte bene, piene di energia e, per quanto in fondo “Murder the Mountains” è solo una scorreggia nel vastissimo cammino intestinale del rock’n’roll, è sempre meglio dell’ultimo disco dei Kreator o dei Dream Theater: eruzioni gassose di corpi purulenti che nessuno si decide a mettere sotto terra una buona volta.
Li amo.
Insomma, non capisco per quale assurdo motivo ce l’abbiate tanto con questi poveri Red Fang. Tenendo presente che con il disco precedente ci hanno donato (perché ormai bisogna parlare di donazioni) almeno due brani stupendi: “Prehistoric Dog” e “Night Destroyer”, e ME ci metto anche “Humans Remain Humans Remain“, canzone ideale per quando la tv ci avrà avvertito che sta arrivando un meteorite per dicembre e che ci sono il 30 per cento di possibilità che la terra verrà distrutta. 
Tenendo anche  presente che la band è appena al secondo album ma ha già mostrato i muscoli, il respiro, le idee di chi è qui per restare, credo sia davvero ingiusto demolire il secondo album come se si trattasse di una prova del nove. A sentire tanti appassionanti recensori, sembra che questo secondo disco così fallimentare contamini anche il giudizio che si aveva del primo. Posso dirlo no? 
Ma che cazzo! 
Non li sapete proprio coltivare i vostri miti.
I Red Fang hanno dovuto affrontare un bel po’ di fuoco e con tutti quei peli che si ritrovano, qualche ustioncina c’era da metterla in conto, ma questo non cambia nulla sulle aspettative future e la forza prorompente (forse è la prima volta che uso questa parola) del loro esordio. Che poi non capisco bene cosa ci si aspettasse da loro. Il primo album…
 
Eccolo, sì.
 
è un rutto vomitoso di creativa acidità a stomaco vuoto. Canzoni spesse, lerce, sceme e frenetiche come bigattini la domenica mattina. Però badate: niente di originalissimo, di innovativissimo, solo la musica giusta al momento giusto. Red Fang è figlio del suo tempo. Tra dieci anni sarà ancora piacevole da ascoltare ma come lo è ora “Under Lock & Key” dei Dokken o “Blood Sugar Sex Magic dei Red Hot Chili Peppers. Lo metteremo nello stereo, o nella cosa infernalmente più tecnologica che tra dieci o vent’anni useremo per sentire musica, e ci aprirà una finestra mentale su questi ultimi anni zero e primi anni dieci. Sarà una fotografia, niente di avveneristico, di avanti, solo l’oggi (in questo caso, quindi, il ieri) riportato infedelmente dall’arte. Tutti si sono lasciati stregare dall’alcolismo scanzonato di questi panzoni perdenti e sfigati. Perché avrebbe dovuto essere diverso il secondo album?
Il metal ormai è l’evoluzione brutale del nerd. Non siamo più dalle parti della fichezza di Nikki Sixx o la sensualità di Bruce Dickinson (ahahaha, e dai scherzo dai, volevo dire Layne Staley): è la grezza espressione che puzza di calzino sporco e di sperma male occultato, di vecchi libri di fisica esoterica e vinili dei Black Sabbath. Ecco fatto il nuovo immaginario e i Red Fang ne meritano la copertina, ok?
Copertina.
Tutto bene, tutto perfetto, ma adesso non basta più, i nostri devono mostrare che non sono semplicemente quello che vediamo bensì qualcosa di molto più complesso, ambizioso e profondo. Qualcuno deve avergli fatto una testa così e pare che anche loro ci si siano immedesimati. Il nuovo album ha quell’aria di voler alzare la posta: pezzi più articolati (ma che cazzo dico?) suoni addomesticati e qualche pretesa maggiore nei testi. Solo che gli autori sono sempre quelli del debutto e qualcuno li ha convinti a cercare un’evoluzione che forse non è ancora arrivata naturalmente e che magari non arriverà mai, almeno non nella canonica evidenza dei primi tre dischi.
Eppure Murder the Mountains 
copertina meravigliosa, datata ancora prima di nascere
è un disco pregno di… che palle, possibile che per parlare dei Red Fang si debba essere a tutti i costi scatologici e paragonarli alle scorregge, i rutti, il buco di culo di Satana, la puzza di pisello e tutte queste schifezze? Non si potrebbe concentrare l’attenzione sull’epica fallimentare di “Malverde” o dire che “Throw Up” (Vomitare), bistrattata perché così evidente tentativo di rifare il verso ai Melvins, è una nuvola nera che ci si piazza sulla testa e non se ne va per quasi sette minuti? “Hank is Dead” e “Dirt Wizard” sono i nuovi classici e confermano che questa band saprebbe ancora scrivere grandi cose se qualcuno la smettesse di far loro tutti questi cazzo di complimenti e li lasciasse in pace. “Human Herd” e “Number Thirteen” due momenti adorabili di canzonette a pornofiato.
Ci sono alcune cose piuttosto deboli, ma nell’insieme quest’album dei Red Fang è quello che è: un secondo disco  che per propria natura conferma poco e smentisce molto di quanto fatto in precendenza e, anziché rassicurare sul futuro della band e del mondo, mette ansia e fa temere il peggio. E come tutte le seconde produzioni di tutti i gruppi che sono partiti esordendo alla grande, subirà mille cambi di prospettiva, a seconda di come sarà il terzo, il quarto, il quindo disco e così via. Insomma, boyz, i Red Fang sono in gamba, lasciateli crescere in pace e tenete i vostri crisantemi per qualche altra big band che non si leva più dai coglioni.
Per quanto mi riguarda, l’immortalità se la sono già guadagnata con questo. W i Red Fang!
(Francesco Ceccamea)