MONDO CANE: FIGLI ABBANDONATI IN MACCHINA

Di solito di queste cose di parla a Luglio e ad Agosto, quando le temperature sono pericolose, puntualmente qualcuno lascia il figlio in auto per cinque o sei ore e quando torna lo trova morto. 
Devo ammettere che questo tipo di notizia mi ha sempre inorridito, va bene, ma anche molto affascinato, ai limiti dell’ossessione. 
La prima volta che mi capitò di sentire un fatto come questo, mi pare fosse avvenuto a Napoli,  in Agosto o giù di lì. La cosa che mi spaventò di più, al di là dei soliti triti e deprecabili pregiudizi sullo scarso livello morale e mentale del partenopei, era che i conoscenti di quel padre, gli amici intimi, i parenti tutti non si sarebbero mai aspettati un’azione tanto scellerata. Descrissero quel genitore immondo come premuroso, affettuoso, in gamba. 
Epperò quella mattina il bambino morì, scalciando e piangendo disperato, nella speranza che qualcuno lo tirasse fuori, mentre la macchina diventava sempre di più un forno per le pizzette.

Per esempio, agli inizi di settembre, da qualche parte in Italia, un tizio è stato denunciato per aver lasciato solo alcune ore il figlio chiuso in macchina, mentre lui era al ristorante a mangiare, comodo comodo. 
A luglio, in provincia di Cuneo, una signora ha lasciato il figlio in auto per alcune ore ma con i finestrini semi-abbassati. Doveva fare la spesa all’outlet e con molta probabilità non lo voleva tra le scatole. Alcuni clienti sentivano piangere nel parcheggio ma avevano troppo da fare per occuparsene. Alla fine uno con un pizzico di iniziativa in più ha chiamato i carabinieri e il resto è cronaca pubblica.

Ce ne sono a decine di casi come questi, tutto l’anno. Mamme che vanno al supermercato, papà che vanno al lavoro e il figlio inspiegabilmente viene dimenticato in macchina. Ci diciamo “l’hanno dimenticato” per illuderci che non l’abbiano fatto di proposito; anche se quei finestrini mezzo abbassati nel parcheggio, il luglio scorso a Cuneo, fanno pensare ci fosse l’intenzione. 

C’è chi sostiene che un’azione tanto biasimevole possa accadere a chiunque. Ho usato il verbo accadere perché secondo qualche psicoterapeuta (e alcuni di quei genitori “debosci”) il momento di buio mentale, il buco nero, l’attimo del coglione può capitare a tutti. 
Tutti. Anche a me e voi.
Per esempio, un giorno io sono entrato in una macchina non mia.  Non è che fosse uguale alla mia, era più o meno simile come un bisonte e una gazzella. Era aperta e sono entrato convinto che fosse la mia e stavo per partire. Se ci fossero state su le chiavi nulla mi avrebbe fermato. Nel mio cervello c’erano un sacco di cose ma nulla che mi conducesse a ciò che stavo facendo. Avevo messo il pilota automatico e il pilota aveva sbagliato vettura. Fortunatamente il proprietario della macchina non era nelle vicinanze, altrimenti vagli a spiegare che io avevo solo confuso una Jeep con un’Audi. Sarei finito come minimo in caserma, magari con un occhio nero. 

Come può un padre dimenticare per ore il proprio bambino in auto? Cosa gli capita in tutto quel tempo? Che gli racconta il cervello? 
Io penso a mia figlia mille volte al giorno. Quasi tutto quello che dico o faccio mi riconduce a lei, sono un padre premuroso al limite dell’ansia, cerco di essere sempre presente, di non deludere nessuno eppure qualcuno mi dice di fare attenzione perché potrei uscire, una mattina di luglio, per andare in ufficio e alla sera ritrovarmi una figlia morta arrostita per colpa mia.

Una mattina qualsiasi, magari c’è che devo passare prima da mia madre e lasciarle la bambina perché mia moglie è dalla parrucchiera. Sistemo la bambina sul suo seggiolino. Accendo la macchina, lo stereo e parto. Arrivo in ufficio. Alle mie spalle si erge un muro impenetrabile che mi impedisce di pensare a nulla che riguardi il tragitto appena fatto. Entro, saluto i colleghi, mi occupo delle solite rogne, mi arrabbio, rido, vado su facebook e nella mia testa c’è una serena consapevolezza di svolto tutto quello che dovevo: mia figlia è con mia madre, come tante altre mattine è già stato, mia moglie tornerà dalla parrucchiera, passerà a prenderla e magari verranno a trovarmi o mi chiameranno per farmi sapere che va tutto bene. Verso le undici e mezzo esco fuori un momento per un caffè nel bar vicino all’ufficio e guardo la mia macchina, il vetro è una lastra bianca accecante per via del sole che ci sbatte. Mia figlia sta morendo e io non ci penso. Semplicemente. Un dispositivo di sicurezza che mi ha tenuto sveglio per tante notti, a immaginare le più terribili catastrofi (incidenti, ladri in casa, tumori) un sistema d’allarme che il più delle volte ha sempre funzionato con puntualità facendomi correre in camera della mia bambina, per via di uno strano silenzio che non mi convince. Quel dispositivo è in panne. Mi dipinge una realtà inesistente e mi da un senso di quiete inossidabile. A mezzogiorno inoltrato, mia figlia è ancora in macchina. Morta. Sprofondo in un inferno inimmaginabile. 
Quello che voglio dire è che sì, ci sono dei pessimi genitori, picchiano i figli, li mandano a fare sesso con degli adulti in cambio di soldi, li ammazzano soffocandoli con un cuscino o lanciandoli dal balcone, ma ci sono anche questi spaventosi blackout di cui sono vittime i genitori buoni, apprensivi, sensibili, normali. 

Se penso che mio padre mi lasciava in macchina per ore e ore. Io andavo sempre con lui a caccia e più di una volta, siccome i cani non tornavano, mi lasciava chiuso in auto nel bosco mentre lui svaniva tra le frasche a cercarli. Dovevo restare lì ad attendere i suoi cani nel caso fossero tornati in sua assenza. Avrò avuto sette, otto anni. 
Nel bosco. 
Da solo. 
In auto. 
Magari si rifaceva vivo dopo due ore e senza cani. Oppure quando mi veniva a prendere a scuola, nel pomeriggio, visto che erainfermiere aveva sempre qualche servizio da fare a domicilio e spesso sorgevano delle complicazioni, io potevo rimanere in auto anche un’ora. 
Una volta ero malato e mi portò al pronto soccorso. Mi visitarono. Prima di tornare a casa disse di aspettarlo in macchina perché  voleva prendere un caffè con un paio di amici suoi. Dopo venti minuti non riuscivo più a starmene in quel bidone di macchina, una Renault 5 senza climatizzatore (non ce n’erano nel 1988). Scesi per andarlo a chiamare e dirgli di portarmi a casa, stavo male, avevo la febbre e respiravo male. Entrai nel bar e non lo trovai. Andai ancora più su, c’era un altro bar ma non era nemmeno lì. Rientrai in macchina in preda a una grandeangoscia. 
Alla fine era successo, mi aveva abbandonato! 
Oppure era svanito nel nulla? 
L‘avevano ucciso i mafiosi, come capitava in quei filmacci con Maurizio Merli che mi faceva sempre vedere? 
Rientrai in auto e piansi per circa dieci minuti. Dopo altri dieci tornò. Era andato dal pizzicagnolo a comprare le salsicce per cena. 
“Tu come ti senti?”

“Non tanto bene”

Oggi se qualcuno vedesse un ragazzino da solo, con la febbre, che piange disperato chiuso in un auto, telefonerebbe ai carabinieri e il genitore finirebbe su tutti i giornali. Dopo tutto per me era normale che mi abbandonassero in auto per delle ore ma oggi, da genitore, mi rendo conto che non è normale neanche per il gaiser e non farò mai una cosa del genere a mia figlia. 
Credo però che a chiunque potrebbe capitare il vuoto mentale che alcuni padri raccontano di aver avuto e forse bisognerebbe mettere nelle macchine, tra i tanti campanelli d’allarme per la cinta o le chiavi sul quadro, lo sportello aperto, un segnale sonoro che comunichi: “attenzione il bambino è in auto da solo, testa di cazzo! Dove credi di andare?”
Se lo lasci sul seggiolino e non c’è nessuno sugli altri sedili, la macchina deve far partire un allarme talmente forte da tirare giù i vetri di qualsiasi merdosissimo ufficio in cui il papà sta andando a farsi fottere un altro giorno o la vetrina di un centro commerciale in cui la mamma sta per andare a buttar via soldi un altro giorno.
 Sveglia, c’è vostro figlio in auto. Tornate indietro, cazzo! 

 

Dubito che qualcuno farebbe mai una cosa del genere e anche quest’anno, a luglio e agosto, più di un bambino che ora se ne sta a casetta a giocare o magari è ancora nella panciona della sua mamma, sarà cotto nell’abitacolo di un’automobile e i giornali sapranno solo tirare in ballo la solita perdita dei valori, l’egoismo dei genitori, la depressione e lo stress che provoca amnesie nei cervelli arroventati dell’uomo moderno dei nostri coglioni
(Francesco Ceccamea)