Edito dalla Gargoyle (euro 14,90) e tradotto benissimo da Maria Antonietta Struzziero, questo è un romanzo che tiene per le palle dalla prima all’ultima pagina e non lo dico solo perché non ho pagato per averlo.
Certo, la storia di un nuovo virus impossibile da arginare e nel giro di pochi giorni fa migliaia di vittime non è niente di originale, va bene, ma Will Mara sa davvero come rappresentare certe situazioni e non lo dico perché di cognome si chiama come mia moglie. Lui sa quali tasti spingere, anche in un lettore come me, smaliziato da vent’anni di letture orrorifiche ed ecatombali. Mi ha trascinato in fondo al suoincubo, tenendomi a boccheggiare fino alle lacrime.
Ho letto alcuni dei capitoli più intensi seduto nella sala d’attesa di un grosso ospedale, con un pessimo raffreddore, a un giorno dal fatidico 21 dicembre, data della possibile apocalisse profetizzata (anche se così non era) dai Maya. Mia moglie era in una stanza, sottoposta a un monitoraggio e giuro di aver avuto parecchi problemi a trattenere le lacrime per le difficili sorti della famiglia Jensen, una famigliola tipicamente americana: padre, madre, due bambini, un maschio e una femmina, più il cane e la staccionata. La loro vita è bella, tranquilla, noiosa, prima che il virus inizi a decimare il vicinato come un bulldozer degli inferi. Cercano di mettersi in salvo in una baita sperduta sulle montagne, il luogo dove di solito andavano per le vacanze estive, senza rendersi conto che è proprio quello l’epicentro della malattia.
Si salveranno? Non ve lo dico, ma vi assicuro che lo vorrete più di ogni altra cosa, specie se avete dei figli e un cane. La staccionata no, quella non conta molto se non sei americano. E anche la pistola.
L’unica foto circolante di Mara, dal gozzo deve aver problemi di tiroide. A guardarlo bene sembra la mamma di Stephen Dorff |
Stephen Dorff come mamma lo fece. |
Ci sono altre storie, altri personaggi, tipo il povero Bob Easton, uomo dalla salute di ferro che contrae il virus per primo, oppure il terrorista Abdul Masud, kamikaze di una verosimile e allo stesso tempo farsescha guerra batteriologica. Alcuni nascono e muoiono nel giro di un capitolo, altri ci accompagnano per lunghi tratti. Beck l’epidemiologo e la sua assistente Cara Porter sono i veri antagonisti del virus, gli unici che possano salvare il mondo, ma ancheObama e il presidente dell’Iran dovranno cercare di non trasformare il virus Gemini nella scusa per lo scoppio della terza guerra mondiale.
In fondo però il protagonista assoluto del romanzo è il virus stesso, sia chiaro.
uno scatto rilassato del vero geminivirus |
Le prime quaranta pagine sono ai limiti della sopportazione. Le descrizioni abbondano di particolari orridi in modo quasi compiaciuto ma sempre molto letterario, con picchi di lirismo rivoltante degni dei più ispirati Skipp & Spector. Non dimenticherò mai i brani di pelle che galleggiano come foglie di ninfee sulla superficie dell’acqua oppurele vesciche piatte e flaccide come paracadute sgonfi che pendono dal corpo di un infettato.
Il problema della malattia è che parte come un raffreddore e finisce come la peggiore forma possibile di vaiolo emorragico, con gli organi interni che si sciolgono e colano via da ogni pertugio del corpo mentre all’esterno la pelle si gonfia e si riempie di una sostanza densa color miele e così puzzolente da procurare svenimenti emetici. Eppure, tutto questo passa in secondo piano perché Will Mara non dimentica di raccontarci cosa succede alla mente dei contagiati ed è lì che inizia il vero orrore. Ci identifichiamo con grande facilità nelle speranze di sopravvivere, e soffriamo invece peril penoso declino verso la disperazione e la follia suicida dei contagiati. Che poi, finché a beccarselo è uno stronzissimo miliardario o un giovane playboy che disprezza i contraccettivi va anche bene ma nel momento in cui tocca a un ragazzino innocente tutto diventa troppo difficile da mandar giù. Famiglie chiuse in casa a vedersi morire. Padri che osservano impotenti i propri bambini vomitare valanghe di muco olezzante e attendere l‘infernale epilogo in cui forse saranno così fuori di testa da massacrare la famiglia e tirarsi un cruento colpo liberatorio subito dopo.
Nel 1300 accadde più o meno questo in tutta Europa; la Peste Nera fece fuori milioni di persone e lo stesso capitò con la “Spagnola” che si portò via più anime dell’intero Primo Conflitto Mondiale (tra cui anche la mia bisnonna paterna e mio nonno crebbe mangiando quello che trovava nei secchi dei rifiuti) e quello scenario potrebbe ripetersi, prima o poi. In questo caso però il libro ci dà qualche speranza in più di cavarcela rispetto ai secoli passati. Leggete e scopritelo.
Il problema della malattia è che parte come un raffreddore e finisce come la peggiore forma possibile di vaiolo emorragico, con gli organi interni che si sciolgono e colano via da ogni pertugio del corpo mentre all’esterno la pelle si gonfia e si riempie di una sostanza densa color miele e così puzzolente da procurare svenimenti emetici. Eppure, tutto questo passa in secondo piano perché Will Mara non dimentica di raccontarci cosa succede alla mente dei contagiati ed è lì che inizia il vero orrore. Ci identifichiamo con grande facilità nelle speranze di sopravvivere, e soffriamo invece peril penoso declino verso la disperazione e la follia suicida dei contagiati. Che poi, finché a beccarselo è uno stronzissimo miliardario o un giovane playboy che disprezza i contraccettivi va anche bene ma nel momento in cui tocca a un ragazzino innocente tutto diventa troppo difficile da mandar giù. Famiglie chiuse in casa a vedersi morire. Padri che osservano impotenti i propri bambini vomitare valanghe di muco olezzante e attendere l‘infernale epilogo in cui forse saranno così fuori di testa da massacrare la famiglia e tirarsi un cruento colpo liberatorio subito dopo.
Nel 1300 accadde più o meno questo in tutta Europa; la Peste Nera fece fuori milioni di persone e lo stesso capitò con la “Spagnola” che si portò via più anime dell’intero Primo Conflitto Mondiale (tra cui anche la mia bisnonna paterna e mio nonno crebbe mangiando quello che trovava nei secchi dei rifiuti) e quello scenario potrebbe ripetersi, prima o poi. In questo caso però il libro ci dà qualche speranza in più di cavarcela rispetto ai secoli passati. Leggete e scopritelo.
era una cosa tipo questa… ma è perché non c’era internet! |
La scena dei poliziotti che entrano nell’appartamento di una signora che non si sente muovere da giorni è un esempio magistrale di come si possa raccontare la scena più tremenda senza narrarla direttamente ma basandosi sullo svelamento graduale del luogo dove tutto è avvenuto: attraverso lo stato dei mobili sporchi, dei piccoli soprammobili tutti spaccati e poi rimessi al loro posto, gli schizzi di sangue sul muro, i quadri squarciati con una grande x al centro, la pizza ordinata, acquistata e lasciata intatta, un piede umano nel grosso frullatore…
L’autore non trascura mai di segnalarci il titolo e l’autore della canzone che i protagonisti stanno ascoltando, come a volerci indirizzare verso una specifica colonna sonora da tener presente. Vi consiglio di seguirne i suggerimenti e vi garantisco che il romanzo ne acquista in efficacia.
L’epidemiologo è fissato con un tipo di canzoni ultra melodiche molto di moda negli anni 70, quella che lui definisce Età perduta della Melodia, quando i compositori dettavano le regole dell’industria musicale e i successi avevano ritornelli che non riuscivamo a toglierci dalla testa, Martin Denny, Les Baxter, Arthur Lyman… tutta gente che non avevo mai sentito nominare. Cercateli su You Tube e fateli suonare mentre affrontate i capitoli più duri, vi assicuro che aggiungono uno struggimento romantico che condisce lo sberleffo grottesco del sangue e del pus, con le lacrime di un mondo easy che davvero non tornerà mai più.
Il culmine di questa commistione tra musica e letteratura si raggiunge nel sogno che l’epidemiologo fa mentre nella sua testa riecheggia la canzone Wildfire di Michael Martin Murphey, brano del 1975, musicalmente leggero, suadente e rassicurante nella sua veste country autoriale: quando una donna dalle gambe magnifiche ma annerite, così deturpate dalla malattia che ormai hanno perduto ogni attrattiva, si tuffa da un cavalcavia con in braccio un fagottino insanguinato, si raggiunge un tale livello di orrore e drammaticità da levare il fiato, proprio grazie al brano così squisitamente avulso, stridente e una volta per tutte sinistro.
Ci sono un sacco di colpi di scena però e se leggendo questa specie di recensione avete già concluso che sia solo l’ennesima rivisitazione letteraria de “La città verrà distrutta all’alba”, sbagliate. C’è molto di più e, quando penserete a dispetto della crudezza insopportabile della prima parte che l’autore in fondo abbia un debole per la retorica, il patriottismo e il lieto fine, vi assicuro che, prima di arrivare a destinazione, cambierete idea.
(Francesco Ceccamea)