SKELETON IN THE CLOSET 2 ( SPECIALE RELOAD!)


Succede spesso e volentieri che una band, sull’onda di un successo tanto clamoroso quanto inaspettato, perda la bussola. E non si tratta di un discorso di coerenza, quanto piuttosto di un “delirio di onnipotenza” generato da cotanta esposizione mediatica. Col botto commerciale (ma anche qualitativo, bisogna ammetterlo) del “Black Album”, i Metallica finiscono sulle prime pagine di tutti i giornali musicali del globo terracqueo, diventando praticamente un fenomeno di costume. Difficile tenere i piedi ancorati a terra per quattro ex ragazzini che, una volta, sbavavano sulle note di “Curse Of The Pharaohs” dei Mercyful Fate o “Am I Evil” dei Diamond Head, gruppi da culto per eccellenza. Ora Ulrich e soci sono la “new big thing”, e allora diventa impossibile resistere alle sirene del music business. Dai piani alti ti convincono che il futuro sta nella “contaminazione”, nell’eterogeneità stilistica, perché tu sei l’America e quindi devi essere la band di tutti. Un po’ come per le elezioni presidenziali. Si fa la guerra, ma poi si deve accontentare tutti, e via col buonismo un tanto al dollaro. Nel nostro caso, poco importa se Hetfield ha una voce talmente incazzata e ingessata che potrebbe cantare solo heavy metal anche dopo una castrazione. Bisogna battere il ferro finché è caldo, strizzare l’occhio a tutti, buttando dentro tutto ed il contrario di tutto. 



Allora via all’operazione maquillage con il rock pesante (ma fruibile, anzi frullabile) di “Load”, un disastro da cui si salva la sola opener “Ain’t My Bitch” ed il singolo “Until It Sleeps”. 
Tutto finito? 
Tutto dimenticato? 
Niente affatto, l’anno dopo arriva “ReLoad”, sicuramente il punto più basso mai toccato dal quartetto di San Francisco, checché ne dicano i detrattori di “St.Anger” e del suo rullante stile lattina di olio vuota. 
“Ricarica” è un lavoro ancora più fiacco, piacione ed inutile del suo già mediocre predecessore, tra canzoni che vorrebbero suonare la carica (ovviamente la solita first track “Fuel”) e altri imbarazzanti episodi inutilmente “sperimentali”. Come l’increscioso singolo “The Memory Remains”, sul quale compare spettrale l’atroce ugola di una Marianne Faithfull letteralmente inascoltabile. “Devil’s Dance” vorrebbe essere la versione addomesticata di “Harvester Of Sorrow” e “Sad But True”, ma ottiene l’unico risultato di apparire vuota, prolissa, patetica. Per non parlare del sequel “The Unforgiven II” che, facendo un improbabile parallelismo cinematografico, sta all’originale come “Highlander II” sta al proprio capostipite. “Better Than You” è noiosa e boriosa nel suo voler essere cattiva a tutti i costi: potranno forse impressionarsi i nuovi fans (dell’epoca), ma il vecchio pubblico non riuscirà a trattenere un amaro sorriso di compatimento. L’unico riff veramente centrato dell’album è quello di “Slither” che, per quanto affatto originale, riesce nell’intento di riportare a galla l’antico groove ritmico dei Metallica: peccato per quell’orrendo refrain alternative style che rovina praticamente tutto. “Carpe Diem Baby” è il perfetto esempio di quello che non dovrebbe essere una rock/metal band: pezzo monolitico, asfissiante, prevedibile, modaiolo (per l’epoca). Una prova di resistenza anche per l’ammiratore più incallito, che viene messo alle corde pure dalle successive “Bad Seed” e “Where The Wild Things Are”, col loro grunge mood malamente sostenuto da un James Hetfield inadeguato e altamente insufficiente. “Prince Charming” alterna un’ottima ritmica a linee vocali terrificanti, ma è quando il gruppo si mette in testa di rifare il verso a Johnny Cash (“Low Man’s Lyrics”) che si scade addirittura nel ridicolo. 
Nonostante il titolo, “Attitude” è proprio ciò che “ReLoad” non ha, soffocato da un mare di influenze esterne e dissidi interni, che porteranno il quartetto di San Francisco prima all’abbandono di Jason Newsted, poi sull’orlo del baratro (scioglimento). 


Se fino al “Black Album” (compreso) erano i Metallica a dettare i tempi e le evoluzioni artistiche, ora sembrano loro a subirle impassibilmente, come se dovessero comporre musica a comando. Chiude in modo indecoroso l’assurdamente chilometrica “Fixxer”, un allucinante vuoto musicale dalla cadenza apocalittica e marziale, che precorre in qualche modo i tour de force inscenati assieme a Lou Reed nel tanto discusso “Lulu”. 
Oltre alla qualità veramente scarsa dei brani, sono anche le prove dei singoli a lasciare letteralmente attoniti: un’involuzione che coinvolge tutti i Four Horsemen, a partire dal pressappochista drumming di Ulrich fino ad arrivare al pessimo cantato di Hetfield, passando da un Kirk Hammett più interessato al look da cubano che alla costruzione di trame chitarristiche memorabili. Il tutto nell’indifferenza di Newsted, personaggio schivo e poco incline ai vezzi da rockstar, quindi ben poco partecipe alla riuscita di questo disco (come del suo predecessore). Quanto abbia inciso il “quinto uomo” Bob Rock nelle scelte stilistiche della band non è dato sapere, tuttavia i passi successivi dei Metallica potrebbero dare qualche utile indicazione a proposito. Ci vorrà il “motivatore” Rick Rubin per rimettere il gruppo finalmente in carreggiata (con “Death Magnetic”), ma essere sopravvissuti a “ReLoad” è roba da veri duri. 

(Alessandro Ariatti)