SKELETONS IN THE CLOSET 3

                          ASPHYX – God cries (Olanda 1996) 

 

“The Rack” nel 1991, “Last One On Earth” nel 1992, il bellissimo omonimo nel 1994, senza contare che “Embrace The Death” uscì solo nel 1996 ma era stato registrato nel 1990. Gli Asphyx non sono stati mai tra i migliori gruppi death ma hanno lasciato e lasciano tuttora un segno indelebile per il loro unico e mai eguagliato death – doom. Poi cosa accadde? Accadde che la crisi nel settore del death metal fece scomparire decine e decine di band che si sciolsero come neve al sole mentre altre cominciarono a pubblicare album in cui la puzza di decadenza divenne il grave sintomo di un imminente tramonto. Le etichette dopo anni di investimenti voltarono pagina, tanti gruppi per non perdere il nuovo treno iniziarono a cambiare stile. Era la metà degli anni Novanta. Il death che aveva attirato orde di giovani stava stancando. La riprova del declino la ritroviamo in un cd, “God cries”, dove il death venne annacquato fino a diventare più un crust/punk con accordature, sonorità e registrazioni tipiche di quella nuova svolta.
Messo da parte quasi completamente sia il death che il doom, gli Asphyx tirarono fuori dei pezzi uno uguale all’altro con una offuscata traccia di brutalità. Poco ci mancò che si resero complici del funerale dei funerali: quello della “morte” in musica! Inoltre nella formazione erano avvenuti dei grossi stravolgimenti: il chitarrista Eric Daniels se ne era andato dopo “Asphyx” (1994), il cantante Martin Van Drunen si era allontanato dopo “Last one on earth” (1992), però era rientrato il batterista fondatore Bob Bagchus che si era portato con sé il cantante Theo Loomans, già dietro al microfono degli “Asfissia” per il demo “Crush the cenotaph” (1989) e l’EP “Mutilating process” (1989). Insomma la confusione fu grande. Si dica pure che a distanza di anni questo “Dio che piange” non è poi così disastroso, forse perché noi ex – ragazzi di una volta non abbiamo più da un pezzo quell’età o forse perché guardandoci alle spalle rivediamo il passato in modo più distaccato ma, all’epoca, quando si viveva quell’atmosfera musicale e si viveva soprattutto per la musica fu una vera delusione. Non fu un caso che dopo aver registrato cd di qualità inferiore tanti gruppi si sciolsero rifacendosi vivi anni dopo, riscattandosi come appunto gli stessi Asphyx i quali ripropongono ancora oggi ciò che sanno fare: il loro impareggiabile death – doom. 
(Flavus)

                 
                 DESULTORY – Swallow the snake (Svezia 1996) 

E appunto si diceva della grave crisi del death metal alla metà degli anni Novanta… I Desultory ci caddero pure loro con tutti i piedi. Il death aveva disatteso le aspettative commerciali, i troppi gruppi avevano reso satura la scena, la durezza e la spontaneità vennero meno come l’effetto novità degli anni precedenti. Tutto appariva scontato, le vendite crollavano, il fenomeno black era scoppiato con la sua nuova grezza brutalità sonora e lirica e la sua cattiveria, mentre il death sembrava aver perso quell’aurea di malvagità diventando agli occhi di molti soltanto divertente e simpatico quanto finto. Mollò il chitarrista Stefan Poge e i Desultory assieme ad altri, tra noia e disperazione fecero un brusca virata sul death’n’roll dopo due discreti dischi di puro death svedese (“Into eternity” 1993; “Bitterness” 1994). Chiaro il richiamo agli Entombed e al loro death roccheggiante, evidente la scialba proposta (per dovere di cronaca si ricordi però che ad inventare il death’n’roll non furono gli Entombed come in molti pensano, ma i loro connazionali Furbowl). Così fu inevitabile la triste separazione fino a quando si rifaranno nel 2010 con “Counting our scars”, e quella dei Desultory rimane fino ad ora una delle poche interessanti  riunioni a distanza di molti anni.

(Flavus)

                             
                              Cirith Ungol “Paradise Lost”


“Paradise Lost” (1991) fotografa una band già allo sfascio. Assurdo anche solo a dirsi, visti i tre stupendi album che i Cirith Ungol avevano alle spalle, ma si sa, il valore intrinseco di un disco spesso non ha nulla a che fare con l’accoglienza che gli riservano stampa e pubblico, e a volte anche la stessa band che lo ha scritto e pubblicato. E’ storia nota e consumata, pure i Cirith Ungol infatti ritrattarono parzialmente il loro convincimento su questo album, martoriato dalle ingerenze della casa discografica. A Tim Baker fu letteralmente impedito di cantare su alcune canzoni, e sul virilissimo epic metal dal taglio heroic fantasy della band fu innestata un’anima hard rock che francamente stonava alquanto (“Go It Alone”). Tuttavia Paradise Lost contiene almeno una delle più belle canzoni di sempre dei Cirith Ungol, quella “Chaos Rising” che da sola può annientare intere discografie di guerrieri cimmeri wannabe, immensa! A seguire, “Fallen Idols” e la title track costituiscono una ideale trilogia che chiude al meglio l’album. E “Join The Legion”, “The Troll”, “Fire” non sono certo episodi mediocri o dei quali vergognarsi. Alla fine, le uniche due tracce più sottotono si riducono ad essere “Heaven Help Us” e l’atipica “Go It Alone”, davvero troppo sfacciata e ruffiana per gli Ungol. Purtroppo furono in pochi a pensarla come me, visto che i Cirith Ungol cessarono di esistere discograficamente dopo “Paradise Lost”…..e i Manowar invece hanno continuato serenamente a pubblicare immondizia.
(Marco Benbow)

Disbelief – Heal!
Per festeggiare il loro ventennale, i Disbelief nel 2010 pubblicarono questo Heal!. Fosse uscito come EP sarebbe stato pure interessante questo lavoro.
Potevano semplicemente fare un tour di rito o pubblicare un album con i contro cazzi, invece ti fanno una compilation mal riuscita di cover e pezzi nuovi (giusto 4) per la gioia degli spendaccioni dalle mani bucate. I brani inediti non tradiscono le aspettative dimostrando ancora una volta che i Disbelief restano uno dei migliori nomi del panorama death attuale, ma quelle cazzo di cover cosa centrano?
Tra “Welcome Home” di King Diamond, “Red Sharks” dei Crimson Glory, “Like Blood” dei Killing Joke e il remake della loro “Shine, il lavoro si dimostra riuscito a metà in virtù della sua pubblicazione come nono studio album di una discografia che fino a questo momento non ha conosciuto passi falsi.
(Ruggiero Musciagna)
                                   
                               Stryper  Against The Law

Quando gli Stryper decisero di mettere via le bibbie, i costumi da api e i proclami religiosi per uno stile sobrio e un suono aggressivo, ecco che il pubblico dei fans e soprattutto quello dei detrattori li abbandonò a se stessi. Peccato perché Against The Law, uscito nel 1990 per la Hollywood Records, rappresenta ancora oggi un pregevole esempio di class metal americano oltre a essere senza dubbio il miglior lavoro mai prodotto dalla band. Canzoni come LadyAll For One e la reinterpretazione di Shining Star (storico brano degli Earth, Wind & Fire) rendono finalmente giustizia alla tecnica di Stephen Sweet e Oz Fox. Il primo in perfetto equilibrio profetico-imbonitorio e felice di abbandonarsi a testi di amori finiti e sacrosanta laicità, il secondo che mostra con la chitarra livelli di virtuosismo e feeling davvero sorprendenti. Si avverte un senso di puro e liberatorio godimento. Purtroppo la maggior parte del pubblico non se lo sia mai goduto e oggi gli Stryper, tornati nei loro costumi di api bibliche, vedono “Against…” niente di più che una imbarazzante scappatella
(Francesco Ceccamea)

Da un’idea di Matteo Di Leo

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