BARN BURNER – LA MERAVIGLIOSA FECCIA DELLA TERRA


“Bangers II” è il secondo disco dei Barn Burner, che per chi li sentisse nominare solo ora dico che sono canadesi, cazzoni e pieni di bile. Il loro “Bangers II”, è un disco pieno di difetti esecutivi ma anche di canzoni vere che restano in testa, quindi fermi tutti. Ascoltandolo e riascoltandolo (cosa che di questi tempi in cui la musica ci piove in testa aggratis è quasi impossibile) la patina omogeneizzante della prima pigra, stanca, impressione scoppia via come una bolla di bava e ci accorgiamo di non essere davanti al solito conglomerato di riff e melodie tutte simili tra loro e tutte simili a qualcosa che abbiamo già sentito parecchie volte in passato, qui ogni volta che finisce un pezzo e rimane il silenzio senza fruscio è come se un sipario si chiudesse e si riaprisse sul prossimo atto di uno sgangherato e dolorosissimo show di rock and roll puro. 


“Scum Of The Earth”, la canzone di apertura è un manifesto propositivo dove si mescolano hardcore e vecchio metal, alla maniera dei Valient Thorr, ma con l’acidità di uno stomaco infantile. Peccato per una cosa, i riff spesso si avvitano in scale thrash che con quel suono secco non hanno un rivestimento abbastanza robusto da uscirne incolumi. Ecco quindi che si sentono le note prese male, le dita che incespicano in modo a volte increscioso. Di contro però questo rende il tutto ancora più schietto, vero, cazzo, non abbiamo di fronte dei robottini che in studio si costruiscono un’abilità e dal vivo si ubriacano solo per giustificare la pessima esibizione, questi sul palco non deluderanno. Almeno me lo auguro per loro, perché vuol dire che è gente che suona senza barare e tutto ciò mi secerne gran simpatia. 
La cosa che inganna è che i Barn Burner sembrano i soliti universitari fuori corso ingozzi di droghe chimiche e birra, i quali vogliono solo scorreggiare un paio di vecchi riff alla Black Sabbath e contestualizzarli con dei rimandi a qualche Castaneda modernamente stantio, prima di vomitarci su che il rock è morto… ma sia chiaro che non è così. Quella è la confezione uniformante che le case discografiche vogliono dare a una band nella speranza che abbia un pubblico ancora prima di mettere la testa fuori dallo studio di incisione. Purtroppo per i frettolosi recensori questi ragazzi non sono l’ennesimo rigurgito digestivo della matrona pregna del nuovo heavy rock, sua maestà la regina dei cetacei sonici, Mastodon, no, questi qui, non hanno neanche un cacchio da condividere con i poveri Thin Lizzy, citati a sproposito in ogni dove, come se tutti adesso avessero una vera idea di chi siano stati Lynott e i suoi! 
No, questi sono i Barn Burner e bisogna spremersi un po’ le meningi per raccontarli in giro, non basta parlare di sbornie massacranti e cannoni scadizzanti su grosse barbe sudiciose. I Barn Burner sembrano smilzi e scanzonati, ma praticano la caccia pesa. Non abbiate timore di loro ma non prendeteli sottogamba o un pezzo come “Dark Side Of The Barn” oppure la mefitica “Gate Creeper” vi sfuggiranno clamorosamente e ve ne andrete in giro convinti di aver perso quaranta minuti dietro a un’altra band Vest Metal del caccolo. Invece quelle canzoni sono raffinate tagliole in cui si dimena un diavolo intrappolato, sanguinante e straincazzato; sono architetture grovigliose di metallo nudo e crudo mescolato alle frattaglie dispettose del punk alternativo dei campus.


“Keg Stand And Deliver” offre ai gonzi in cerca dei nuovi Red Fang, il tumpa tumpa tum stoner sudorifero e caprone, ma anche qui è tutta un’apparenza, perché dietro c’è sempre la voce livorosa di Kevin Keegan che fa le sue tirate antireligiose e quando si distrae scivola nel grullismo “gnaolista” del Billy Corgan, solo più indispettito, mentre sotto le chitarre non smettono mai di intrecciarsi come rettili in un cesto, attraversando un progressivo girandolesco cammino costellato di piccole ma continue varianti. 

Etichettati come “stoner party band”, i Barn Burner ci tengono a mostrare quanto gli piaccia il metallo vero, quello di Exodus, Anthrax e Anvil, soprattutto in cose come “The Earth’s Crust” e “Brother Fear”, ma il bello è che non ce la fanno mica a correre in quel modo, suonare quella roba, si avverte che annaspano e si maledicono per aver scritto cose così complicate per le loro dita piene di porri e di pellicine strappate. In fondo però chissenefrega!, vogliono darci il sangue, il sudore, le lacrime e noi questo chiediamo da una band. L’arte è sempre un misto di ispirazione e residui organici e i Barn Bangers (non è un errore, ma un gioco di parole con il titolo dell’album,ok?) in queste canzoni ci muoiono per carenza di ossigeno, almeno un paio di volte. 
Copertina tremenda.

(Francesco Ceccamea)