I VIRGIN STEELE E IL PIZZAIOLO FOLLE (prima parte)


Un tempo li consideravano dei gran raffinati. C’erano recensori che avevano rispolverato il vecchio vocabolario del liceo per trovare aggettivi nuovi da spendere sulla band che avrebbe dovuto essere fin dalle origini, e in parte lo è stata pure, la versione intelligente dei Manowar.

Esordirono lo stesso anno di De Maio e Ross The Boss (anche se i Kings of Metal avevano un demo dell’81), ma rispetto a “Battle Hymns”, in “Virgin Steele” la band di Canadia non sembrava avere le idee altrettanto chiare.

Me ne innamorai come un pischello. Oggi risento gli album con cui passai quel biennio infame, il 2001-2002 e, un po’ come quando si rimirano delle vecchie foto di una ex, mi chiedo cosa diamine ci trovassi di tanto sensazionale. Sì, era buona musica, ma cosa diavolo mi faceva così impazzire? 
Potrei estendere la domanda a tutti quei grandi ammiratori che in quel biennio affollavano l’angolo della posta delle riviste metal o i forum delle webzinne e giuravano una venerazione incondizionata per i vergini d’acciaio. Oggi gli adepti sono tutti svaniti nel nulla, mentre la band è ancora in giro. Le cose però non girano più molto bene. 
Non siamo ai livelli del ’93, ma qualcosa è crollato. Confesso di non aver ascoltato il loro ultimo “The Black Light Baccalà” o qualcosa del genere. Per me finì tutto col bruttissimo “Vision of Eden”.



Eccolo qui sopra, avete presente? David Defeis in posa vicino a un grosso cavallo nero; insieme rimirano l’orizzonte canadese, con il singer appoggiato a una spada gigante talmente grossa che ci si potrebbe appisolare pure l’epico equino.

Ricordo che uscì la recensione di questo album su una delle riviste metalliche meglio distribuite sul territorio italiano. Gli avevano dato quasi il massimo dei voti. 
“Buon Zeus!”, pensai, e mi misi a leggere cercando di capire cosa ci avesse sentito quel mentecatto di recensore al punto da giudicarlo così bene. Mi bastò arrivare a metà del pezzo per capire che non l’aveva sentito affatto, andava a braccio e sulla fiducia, senza citare un solo pezzo, senza descrivere un momento della struttura di quel disco, parlava a vanvera snocciolando i soliti superlativi e diceva che i Virgin Steele erano ancora una band di gran classe compositiva e bla bla, perché il romanticismo barbaro è una gran bella cosa e poi c’è una tale superiorità tecnica, è palese, e come sono intelligenti e che colti e sugli scudi, sugli scuuudi!
Oddio, sugli scudi dovrebbero metterci a te, appendertici col culo. 

Forza ragazzi di True Metal, tutti quanti sugli scudi, yep!

Già, intelligenti e colti. Esatto, perché la band rinacque verso la prima metà degli anni 90, dopo aver collassato con un disco davvero “easy” rivalutato ingiustamente nel corso di questi ultimi anni e perseverando poi diabolicamente con un altro episodio loffio e controverso che neanche Marco Benbow ha più voglia di difendere. “Age of Consent”… 

eccolo…

è l’album dello scorno, il disco in cui DeFeis, nonostante un predecessore incredibile come “Noble Savage” a dargli ragione su tutta la linea e senza doversela vedere più con quell’incolto fottuto di Jack Starr (menatore di palle indefesso con i suoi dischi dei Saxon e dei Priest) decide di dar retta a una voce interiore che gli dice: “ehi, ragazzone, la vogliamo smettere di parlare di quella roba epica e ci infiliamo un paio di canzoncelle pruriginose e un altro paio di ballate romantiche e tiriamo su una montagna di soldi? Tanto che ci vuole? Ce l’hanno fatta i Bon Jovi!” E per quanto David oggi difenda il valore di quel disco (e anche di quello dopo), ha ammesso a più riprese che comunque lui, avrebbe voluto continuare a “bruciare Roma” ma il suo gemello cattivo l’aveva legato in cantina e si era presentato in studio di registrazione al posto suo per quasi otto anni. 

Sebbene vi fosse dell’ottimo hard rock (“Sweet Seventeen taradara Seventeen taradaradadà!” su tutte) “Age of Consent” fu un tracollo e l’album successivo, “Life Among The Ruins”,  ancora più orientato verso sonorità AOR e hard blues andò anche peggio. Ma quel prode Capitan Findus di Defeis uscì dalla cantina, diede un calcio al gemello cattivo che caracollò giù tra i solforosi flutti e si aggrappò al timone della nave che l’altro aveva portato in bocca a Tritone. Iniziò a girarlo e girarlo in attesa che le acque si placassero o di sprofondare per sempre nelle viscere del mare dell’indifferenza generale.

I due “Marriege”, soprattutto il primo, uscirono senza che se ne accorgessero in molti. Io li comprai entrambi, sia per l’alto voto che su Metal Shock ottennero (a quel tempo davo retta a quella gente, dio mio…), sia per il fatto che in quel periodo, la seconda metà degli anni 90 ero in fissa con il class metal e nelle recensioni di quei due dischi le canzoni venivano definite proprio così, “class”, soprattutto le ballate. 
Non conoscevo i Virgin Steele epici di inizio anni 80, non avevo sentito nulla e credevo si trattasse dell’ennesima band gregaria, che passa venti anni a fare album e non esplode mai (tipo i Gotthard o i Fair Warning) firmando prodotti dignitosi ma privi di genio e soprattutto della sregolatezza che fa grandi gli artisti del metal. 

Marriage 1 e…


…2

Invece quei due dischi a poco a poco mi stregarono ed esaltarono come non mi capitava dai tempi dei Crimson Glory. Erano registrati male, suonati peggio, ma avevano delle grandi idee dentro e con il senno di poi bisogna riconoscere che l’esperienza “hair” dei due lavori precedenti aveva portato frutti succosissimi in quella nuova ritrovata dimensione epico-dicotomica (ma che cazzo scrivo?). Ci sono le cavalcate, i riff alla Judas Priest ma anche i ritornelli anthemici degni dell’epoca d’oro dei Journey (Steve Perry è il padre di DeFeis); e poi tastiere su tastiere come ai bei tempi degli Styx in cui ero uno dei tanti spermatozoi di mio padre. Certo, era uno strazio sentire quelle melodie sciupate da arrangiamenti affrettati. Era un continuo vorrei ma non posso: “qui ci andrebbero le orchestrazioni, ma dovrete accontentarvi della mia tastiera, quindi scusate”. Oppure, “sì, lo sappiamo che c’è un rallentamento della batteria, ce ne siamo accorti, ma non potevamo rifare la parte, ci stavano cacciando dallo studio perché non pagavamo più”, o qualcosa del genere. 
“Self Crucifixion”, “Forever Will I Roam” , “Emalaith”, “Crown of Glory” erano alcune delle canzoni di metal classico più belle che avessi mai sentito, ma suonavano da schifo e questa cosa mi faceva soffrire tantissimo. Era paradossale, gli Steele avevano licenziato due dei migliori dischi della loro intera carriera con una produzione insoddisfacente mentre gli episodi più mosci “Age” e “Ruins” avevano la miglior produzione possibile. 
Ma di chi era la colpa?
A metà degli anni 90 gli album classic metal e hard rock perdevano quella patina lussuosa che avevano avuto negli anni 80, iniziavano a puzzare di artigianato ed era dura per il povero DeFeis, che si era visto piombare in casa la Musa a fargli i pompini, attenersi alle possibilità del salvadanaio collettivo della band.

(Fine prima parte)

(Francesco Ceccamea)