VIRGIN STEELE E IL PIZZAIOLO FOLLE (seconda parte)

Bei tempi… certo non c’è più molta fica nel rockenroll, solo un sacco di gente puzzona con la barba lunga e le toppe al culo.

E così i gruppi mediani furono tutti costretti, non solo a pagarsi i dischi da soli senza il minimo aiuto dalle case discografiche, ma anche a distribuirseli. I concerti, le vendite, tutto il guadagno serviva a fare un altro disco. E avvenne questo negli anni 90, ogni album di una band cresceva qualitativamente rispetto al precedente ma solo grazie al lavoro della band. Non c’erano più morti per overdose, almeno in campo metal melodico. Erano tutti austeri, a dieta, pensavano solo a fare un altro album. Era un reinvestimento costante, caparbio, in attesa di tempi migliori. Se avessero saputo che di lì a poco anche mia nonna avrebbe scoperto un sistema per scaricare aggratis l’intera storia della musica, chissà come l’avrebbero presa, poveracci. 

Nel culo, e come se no?

Fu più o meno intorno alla fine degli anni 90 che moltissime band alzarono il tiro e iniziarono a pagarsi addirittura l’orchestra: Cradle Of Filth, Rhapsody, Blind Guardian, Rage, ma non i Virgin Steele. A loro bastava DeFeis con le sue tastierone e quell’effettiera pazzesca che aveva trapiantata nell’ugola. 


Invictus (secondo me) è l’apice creativo della band. Più di “Noble Savage”. Meglio dei “Marriege” a cui si accoda come teorico terzo episodio. La crescita è così netta sia per la caratura tecnica raggiunta sia per il gusto degli arrangiamenti, sempre piuttosto ridondanti ma decisamente migliori di quelle tastierine sparate e gracchianti che avevano annacquato le migliori canzoni dei Marriege. Pursino sembra quasi un virtuoso e Defeis falseggia come una zoccolosa banshee strafatta di cocaina e senza mai sfiorare il ridicolo (cosa rara per gli falseggiatori). Nelle interviste è evidente la soddisfazione del cantante: dopo aver tenuto duro, dopo averci creduto contro tutto e tutti, adesso raccoglieva elogi da ogni parte (tranne su Kerrang!). Il suo ottimismo nel ’94 non avrebbe mai chiesto tanto.

DeFeis raccontò che dopo le illusioni di successo della decade d’oro del metal classico, si era rimboccato le maniche e aveva preso la laurea, studiato la teoria musicale e approfondito la sua passione per la Grecia antica e i grandi miti classici. E di questo parlava “Invictus”, album che spacca proprio grazie alla sua ambizione, al suo esasperato lirismo, degna colonna sonora di un peplum del periodo neo-ellenico.
E dopo “Invictus”, DeFeis fece sapere al mondo che era intenzionato a scrivere un altro concept in più dischi, una vera rock opera in cui avrebbe tentato di catturare la vera essenza del genere che la band praticava, ovvero il “romanticismo barbarico”.
Ma non facevate Heavy Metal?
“Certo che no, misero pastorello arcadico!” 

 


“The House of Atreus” parte 1 e 2 è una delle creazioni più ambiziose che un gruppo metal abbia tentato di fare negli ultimi vent’anni. La seconda parte addirittura era un doppio CD per un totale di quasi 3 ore e mezzo strapiene di musica.. 
Questa logorrea artistica iniziava però a far venire qualche dubbio a molti. Nel primo “Atreus” si partiva alla grande. I primi tre brani sono ottimi, coinvolgenti e con un arrangiamento da brividi. Poi però tutto si perdeva in una montagna di canzoni, a volte buone e altre no. Insomma, questa grande ispirazione che aveva travolto DeFeis con irruenza, costringendolo a trasferirsi dalla roulotte direttamente nella sala d’incisione non era più così evidente. Forse c’era ancora ma avrebbe richiesto molto più tempo, soldi, muscoli e cervello per poterle rendere la veste che esigeva. I tre album sull’Orestea sono così pieni di broda sonica da sporcare le mani a un sordo ma sembrava servita, la broda, in tutta fretta; DeFeis era talmente immerso da non rendersi conto dei tagli che andavano fatti, delle ripetizioni insistenti, dei momenti troppo contorti e tutti gli altri membri della band non osavano contraddire il capo indiscusso del gruppo, artefice della seconda e più credibile ascesa dei Virgin Steele. 


“Credo che dobbiate prendervi un giorno libero, mettervi sdraiati sul letto della vostra camera e ascoltare tutto il lavoro contenuto nei tre dischi di The House… senza fare mai pause, solo così sarete in grado di apprezzarlo fino in fondo”, così diceva nelle interviste. 
Credetemi, in quel periodo ero senza lavoro, campavo con i miei genitori e potevo permettermi di fare una cosa tanto assurda, ma alla fine del primo disco mi addormentai.

Noia. Ecco cosa trovammo in fondo al cammino evolutivo di questa seconda incarnazione dei Virgin Steele. Procedevano, disco dopo disco a un miglioramento generale costante e una sempre maggiore ambizione di portare il metal a livelli culturali degni di un servizio di History Channel, ma alla fine deragliarono in una cornucopia di goliardia creativa ingestibile, intasante. 
“Il disco è stato scritto in presa diretta quasi!”. Scrivevano e incidevano, scrivevano e incidevano. “Suonavamo una parte e non sapevamo dove saremmo andati a parare, è stato incredibile”
Si sente, Dave. Si sente.


E mentre le altre band power si “pornellavano l’ombelico” con le orchestre di Praga e San Marino, i Virgin Steele fecero di più, fusero teatro e musica metal. Avrebbero portato l’opera completa dal vivo affiancati da una compagnia teatrale specializzata in Grecia Antica, con le maschere, i ruderi di un vero anfiteatro a far da scenografia eccetera eccetera. 
Risultato? Suicidi tra il pubblico, gente che iniziò a drogarsi per sempre e le donne più austere si buttarono a capofitto nel meretricio più babilonese. 
Visto che gli aggettivi positivi per definire la straordinarietà della band stavano finendo, la gente iniziò a usare quelli negativi, anzi, c’era solo una parola per tutto quello che riguardava i Virgin Steele, noia, noia, noia, noia. Avrebbero dovuto prendere di mira il tourbus della band con i cd special price di Franco Califano.


In una nuova intervista David assicurava di non sentirsi affatto stanco e di aver già cominciato a tirar giù dei nuovi brani che però sarebbero stati indipendenti, corti e molto aggressivi, alla “Noble Savage”. 
Maddai! Stai a vedere che l’ha capito anche lui che è tempo di tornare alle origini, con un po’ di sano rockenroulen!
Che magone ripensare alla maestosità e l’immediatezza di “Noble Savage”. Tutta la prima parte della carriera della band non se la ricorda nessuno e molti pensano che i Virgin Steele nascano con “Life Among The Ruins” o addirittura “Invictus”. Molti trovano difficile immaginare DeFeis che si accontenta di quattro minuti scarsi, un ritornello e un riff, per esprimere quello che gli ruzzola nel cuore.
Il primo omonimo 


era un magnifico deambulatorio hard rock nella terra di mezzo, tra Rainbow, Saxon e Maiden. Ci sono già le tirate epicheggianti “Children Of The Storm” e “Virgin Steele” e sontuosi caroselli di tastiere dove lo stile di DeFeis, tra Keith Emerson, Debussy e Giorgio Moroder e Sakamoto, cattura l’attenzione più dei riff di chitarra sovente sciattosi e prevedibili, con buona pace dei fan esuli di Starr. Il secondo “Guardian of the Flame” è sempre a metà tra epica e rock da strada ma risente delle incomprensioni dei due leader. DeFeis insiste per allungare la musica, renderla più articolata, corale, sinfonica e martellante, con episodi che però non convincono per nulla, (Redeemer è il gemello di Holy Diver nato morto) e Jack Starr invece infila una serie di brani quadrati e molto più orecchiabili, (Metal City, Hell or High Water) che però oggi fanno giusto tenerezza. 

“Noble Savage” è un’altra cosa.


Nonostante i forsennati appelli di Luca Signorelli, questo disco, uno dei vertici del metallo anni 80, resta ancora oggi poco considerato pure da chi continua a tenere la testa nelle sabbie mobili del passato. Quando uscì era pregno di una classe per certi versi eccessiva rispetto agli standard delle epic metal band. Allo stesso tempo era però troppo ruvido e violento per l’audience delle hair metal band. Album grandissimo e a differenza della seconda fase dei Vegan Steele, squisitamente “coatto” (I’M On Fire, Rock Me, Fight Tooth And Nail) e graffiante quando serve, come gli alcieri di parte franzosa non avranno più il coraggio di essere una volta passati in mezzo alla nebbia patinesca di “Age…” e “Among…” e soprattutto dopo che Dave avrà preso il controllo di tutto, trasformando ogni intervista in una specie di conversazione con Piero Angela borchiaro. 


Nel 2001 Defeis stava mentendo sulla faccenda delle canzoni corte e di un Noble Savage 2, oppure tornò a casa, riascoltò i brani corti e decise che non erano abbastanza fichi, che avrebbe potuto usarli per un nuovo concept in cinque album. Poi magari Pursino sbucò da dietro un mobile e gli diede una gran botta in testa, lo trascinò fino alla prima clinica psichiatrica e ce lo lasciò per un po’, chi lo sa? Il fatto certo è che passarono 6 anni prima di risentire un nuovo lavoro della band. E qui torniamo all’episodio dolente dell’apertura. 

“Visions Of Eden” era la prima parte (oddio…) di un concept, doppio, triplo o forse quadruplo, ma dopo la prima canzone si capisce subito che non c’era un’idea a pagarla con un dente di Socrate. Ed era palese che ormai David fosse i Virgin Steele e che i Virgin Steele fossero bolliti, come lui e la sua sindrome da concept compulsivo, la stessa che ha afflitto King Diamond e i Blinf Guardian (una volta che la prendi non ne esci più). C’erano solo tastiere su “Vision of Idem”, la chitarra non si sentiva quasi mai e la batteria era la solita piattissima tirata di doppia cassa come il gruppo ci aveva abituato a sentire fin da Invictus.

Ragazzi, non mi sembrate tanto in forma…

Non so voi, ma quando io sento un gruppo, capisco sempre chi è che comanda. Lo “sgamo” da come suonano gli strumenti. Ci sono gruppi dove comanda il bassista…


altri dove decide tutto il batterista…


altri ancora che girano attorno al cantante o al chitarrista


e alcuni, pochi nel nostro genere di riferimento si lasciano portare dal tastierista. 

Il gruppo dove comanda il tastierista è caratterizzato da un suono di chitarra secco e pieno di alti, batteria estrosa quanto una drum machine, intro e intermezzi strumentali fatti con il piano e gli archi praticamente ovunque, prima, dopo e durante la canzone. Qualsiasi cosa accada ci sono sempre gli archi, il piano, i cori finti, gli archi, gli archi e ancora gli archi. I pezzi cominciano tutti o così: parapààààà! 
Oppure così: blin blin blin. 
O magari così: tadadàààà. 
Ecco i Virgin Steele. E negli ultimi lavori l’ispirazione è svanita del tutto, l’uso della voce di David è sempre molto variegato ma sembra che la usi alla cieca: spara tutte le cartucce dal falsetto al ruggito, in sequenza, come se non sapesse più bene cosa scegliere; Ehiiii, uuuuuuuhh, bractch! Mmmmmmmhhh! hhhhhhooooo, Yeah!” ci mette ogni cosa, come un pizzettaio folle. E le canzoni sono pizze troppo cotte, stracariche di condimento ma sempre più insipide. Che sia il tempo di produrre un nuovo album degli “Exorcist”?

(Francesco Ceccamea)

Se vuoi leggere la prima parte clicca qui.