HAMMER OF MISFORTUNE SUONANO PER LA GENTE MORTA

Gli Hammer Of Misfortune io li ho trovati nel mezzo di un elenco di band venute da poco alla ribalta, che dovrebbero ripescare molto dal passato dell’hard & heavy e riproporlo in modo fresco e intelligente: cosa che gente come Hammerfall e Primal Fear non hanno mai cercato di fare. Li ho anche ritrovati in un’intervista ai Christian Mistress, quando la simpaticissimevole Christine ha raccontato di averci diviso il palco per una serie di concerti. 
Viene subito da pensare quindi che siano il solito gruppetto di barbosi pagani che si aggirano nudi nei boschi e copulano con alberi opportunosamente condiscendenti, ma non è così. Intanto questa band gira da moolto più tempo di Alhuna, Blood Ceremony, Ghost, Devil’s Blood e tutta la gradevole combriccola di sciroccati persi tra i solchi di un vinile degli Huria Heep e un libro di Crowley: seconda cosa, questi vegliardi non hanno nulla a che spartire con il New Pagan Wave Of British Heavy Rockets o più prosaicamente definto Vest Metal, anche per il tipo di canzoni, i suoni adottati, le tematiche e l’estetica tutta.

Insomma, non vi confondete, gli Hammer Of Misfortune, che inizialmente si chiamavano “Cadavere Sconosciuto” o qualcosa di simile, fanno un ripescaggio dal progressive anni 70 ma non solo.

Non siamo davanti a una cosa tipo Ayeron o Spock’s Bird e Flower Kings, no, loro recuperano anche i vecchi gigionismi di David Bowie quando era l’alieno stonicchiante e tisico venuto da Marte con una legione di ragni e la grassissima, vandalica prosopopea dei Vanilla Fudgie, quando gli tirava ancora alla grande e trasformavano le canzoncine dei Beatles e di Donovan in macigni fetidi e famelici per teppisti con un sacco di cerume sotto le unghie. Non si trovano molte recensioni del loro ultimo “17th Street”, probabilmente perché non è un disco di quelli che si possono sbolognare citando i Thin Lizzy e i Mastodon, facendo due battute su quanta birra devono essersi bevuti durante le session e sul panzone villoso del chitarrista. Il chitarrista è villoso ma sembra un tranquillo venditore di dischi usati che ogni tanto si fa un po’ d’erba. I suoi Hammer Of Misfortune fanno la loro musica e se tu vuoi scriverci su una recensione devi fermarti e ascoltarli come si conviene.
Cominciamo dai suoni che sembrano assai crudi e i riff che aprono alla NWOBHM sì, ma anche agli Alice In Chains, le chitarre e le tastiere sembrano quelle del tempo dei Queen di The Game, ma le melodie ricordano i Fates Warning quando cercavano di “svegliare il gigante” e i Queensryche di quando volevano diventare gli U2, alla fine degli anni ’90.

Insomma è un gran casino di influenze e finisce che lasci perdere e ti concentri sulle canzoni, che poi è la cosa più giusta da fare, anziché infilare la solita radiografia che dovrebbe servire a stilare l’identikit della band ma il più delle volte serve a sfoggiare la vasta cultura del recensore e lo aiuta a raggiungere il giro di boa delle 500 battute per un pezzo che forse riuscirà a finire ancora prima di terminare l’ascolto del disco.
Insomma, le canzoni. Perché a questa gente non interessa molto far parte di una tendenza, loro vogliono solo scrivere musica buona e ne producono tanta, in abbondanza e fa rabbia che siano sconosciuti ma in fondo se lo meritano, non prendiamoci in giro. Sono brutti, sono fuori moda, scrivono brani impegnati, ma che cazzo pretendono anche di vendere dischi?

“The Day The City Die”, “Grey Wednesday” e l’ultima, lunghissima “Going Somewhere” sono composizioni cariche di sentimento che viene voglia di andarli a trovare questi Hammer Of Misfortune e dire loro, ma chi ve lo fa fare, non esiste più il tipo di pubblico che si mette seduto in silenzio e ascolta ciò che avete proporre. Il vostro gustoso retro-proto è per gente morta e in tutto questo c’è solo tragedia. Insomma, guardatevi. Avete per le mani delle canzoni  incredibili!
A partire dal vostro primo disco “The Bastard”, fino a “The Locust Years”, quando bagnavate le vostre partiture stoppose con la dolcezza marsalica della voce di Janis, prima che lei diventasse mamma e vi accannasse per sempre… E oggi siete ancora tra noi, sconosciuti, ignorati. Siete amati tanto da pochissime persone, tra cui io, che vi vorrei proteggere e se avessi il potere di un Ringo del cazzo vi passerei tutti i giorni su Virgin Radio e verrei licenziato, statene certi, perché voi siete degli sfigati e portate giù tutto quello che prova a salvarvi, tendendovi una mano. Nelle vostre canzoni c’è la tristezza, la glaciante malinconia di uno yeti costretto a passare la vita ai bordi dell’umanità, tramutato in leggenda ancora prima di poter essere riconosciuto come reale. Morirete e forse un giorno morirò anche io. Non resterà nulla. L’adagio finale di “Famine’s Lamp” è il requiem, uno dei tanti che vi siete scritti da soli. E va bene per congedarci tutti insieme.
Viva gli Hammer Of Misfortune. Che ci crediate o no, condividono anche loro la nostra dimensione ma un timore superstizioso li tiene ai bordi della nostra sensitività.