I Fen sono lacrimogeni sonori che sfondano il fragile cristallo della nostra disillusione. La loro musica tende a stimolare così tanto l’animo di chi ascolta da stordire il più indefesso cultore del metallo canaglia, quello che ci gonfia di nostalgia fino a stenderci sul letto a inzuppare il cuscino. Non c’eravamo più abituati a un tale bombardamento rattristante, quasi truce, cruento. Questa è un sabba di pensieri malinconici e sospiri rachitici. I Fen fanno black metal, sono al terzo album e vengono dall’Inghilterra, ma sembrerebbero appartenere a una terra molto più a nord. Sebbene la produzione sia così pessima che dopo i primi venti minuti dovrete smettere di ascoltare l’album e vomitare cerume dal naso, il contenuto è così toccante, esasperato, lirico, che vorrete subito ricominciare a subire quei suoni infettosi.
Le canzoni spesso la tirano troppo per le lunghe e soprattutto nel caso di “The Black Sound” e “Walking The Crowpath” ci si chiede se non sarebbe stato possibile asciugarle un po’; se la necessità di superare tutte le volte i sette minuti per dire quello che si ha da dire non sia un “conformismo al contrario”. Succede un po’ la stessa cosa con gli Opeth: se la canzone è bella dopo il primo minuto ti rilassi e annulli i tuoi appuntamenti per il resto del pomeriggio, ma se quel minuto non ti piace allora viene l’ansia al pensiero che ce ne vorranno dieci o dodici prima di giungere a destinazione.
Non è il genere di pensieri che vi verranno durante tutte e tre le prime lunghissime, plananti e funeree ballate.
“Consequence”, “Hands Of Dust” e soprattutto “Spectre” sono trasposizioni in musica delle più dolci e mefitiche nevrastenie esistenziali; sono miracoli in fila e levano il fiato anche al più spocchioso mangiacotiche colonizzato della terra dove il fagiolo scora già nella padella. Cosa significa questo che sto dicendo non lo so nemmeno io, so soltanto che i Fen stanno al black metal come i Paradise Lost di Gothic stavano al death primordiale, magari la sparo grossa e magari no. Sembrano i nipotini degli Enslaved di Ruun (disco meraviglioso). Usano le stesse combinazioni di accordi, lo stesso suono squilloso, salvo poi aprirsi alla luminosità di un mattino invernale con le melodie dei Pink Floyd ripassate in padella dai fratelli Cavanagh e l’espressionismo della new age rigurgitato da quel gozzo bilioso di John Edlun. Non mi stupisco che piacciano a Emanuele Biani, visto che dalla prima all’ultima nota, i Fen grondano melassa cancrenosa come i migliori My Dying Bride ed alla stessa fonte scura da cui scaturì tutto il miglior metal degli anni 90, che anche loro attingono. Ci vuole una gran faccia tosta, non c’è che dire, ma loro ne hanno tre marmoree, ci manca giusto il muschio per farli sembrare delle languide statue fuggite dai giardini di Compton House.
I Fen sono una grande band e non temono di ferire il proprio pubblico e tanto meno se stessi. “Dustwalker” è un disco bellissimo, questo sto cercando di dire e fareste bene a dargli un’ascoltata, prima di alzare quelle fottute sopracciglia.
(Francesco Ceccamea)