I CONAN: HEAVY IS A REALLY HEAVY THING!


Non voglio aggredirvi con qualche sparata da imbonitore, spesso e volentieri il recensore rischia di diventarlo. I Conan però mi hanno stuprato il cervello dentro una macchina e adesso sono qui a cercare di descrivervi l’esperienza, sentendomi un tantino provato.  

Ho sempre pensato che il metal fosse la musica ideale per raccontare le saghe epiche di Robert E. Howard. Molto di quello che i Manowar hanno fatto agli esordi, soprattutto recuperando il dark sound dei Sabbath per esprimere il lato più oscuro e orrorifico della “fantasia eroica”, mi ha sempre entusiasmato. Peccato che nel corso degli anni quasi tutti gli emuli della band di Ross The Boss (per non parlare dei Manowar stessi), abbiano mantenuto la componente più superficiale, retorica e ridondante, consolidando l’idea che l’epic metal sia tutta una cavalcata, squilli di trombe, tutti per uno e uno per tutti e donna, vieni qui a massaggiarmi l’uccello che ho combattuto tutto il giorno. I Manowar, in brani come “Dark Avenger” o “Hatred” avevano fuso nel magma testosteronico e superomistico di matriche hard roll, il riffing greve di Tony Iommi, dando vita a un primigenio tipo di doom metal, che in pochi hanno avuto negli anni la lucidità di rimarcare, troppo presi a ironizzare sulle mutande di pelo e le sboronate coatte di un vecchio sogno proibito della casalinga americana di fine secolo scorso. 



A parte la magnifica parentesi dei Bolth Thrower, l’epica è sempre stata di competenza del power e del metal classico. 

In effetti l’immagine di giganti muscolosi che brandiscono spade d’acciaio o tagliano la testa a qualche creatura sempentiforme vengono associate ai Warlord, i Virgin Steele o magari i primi Fates Warning. Non certo tutte le doom band più scure, ossessive e lipidiche che forgiano il proprio suono ungendolo di grasso e benzina e poi si rifugiano nelle profondità più soffocanti dei boschi e si crogiolano dietro a ballate macabre condite con dell’olio lisergico. Ecco perché quando parte “Hawk As Weapon” la mia mente si è mossa verso i soliti riti satanici e orge silvane, per poi ritrovarsi in poco tempo, non so nemmeno io bene perché nel buio e minaccioso gozzo di una palude, al cospetto di guerrieri mastodontici che avanzano, affondando gambe larghe come tronchi di quercia nelle melmose brame della palude, con spade, asce e scudi sporchi di sangue nero che cola sopra cespi di carogne e ponticelli fatti con le ossa umane. 
Mi raggiungono. Io chiedo pietà, pietà, non uccidetemi! I loro volti sono indifferenti, come se neanche mi vedessero. Uno di loro tira fuori un membro largo quanto il mio pugno e mi piscia in faccia. Dopo se lo rimette nelle mutande di peluche e prosegue il cammino sanguinario con la sua squadra di pachidermi umani. Questo è heavy metal!, mi dico. Grasso, pesante, frastornante, ostico, austero, severo e spietato. Come Ken Shiro. 


Io ci provo e vi prego di perdonarmi, ma qui ci vorrebbe Beppe Riva e il suo talento evocativo per rendere giustizia a una band così poderosa e implacabile. Le chitarre, il basso e la batteria pestano in modo caparbio, persino banale, come se dietro gli strumenti ci fossero degli scimmioni ubriachi. Bum bum bum burubum bum bum. Ecco che viene fuori la tribalità, il richiamo della foresta. Mi si apre dentro la reminiscenza di quando correvo per le latrine di mammuth in cerca di qualche scarto commestibile, spaventato, affamato e misero. 
C’è una fierezza, un’autorevolezza nell’esecuzione di queste canzoni da mettere in soggezione il recensore più scafato e cinico. In fondo loro sono solo tre ragazzi inglesi con l’aria da nerd, i riff non sono niente di particolare, sia chiaro e nemmeno le melodie, affidate solo a una voce urlata o gutturale abbastanza insipida. L’impatto del tutto è però pari a quello di un muletto su una stesa di polpette ben frollate. Questi tizi vi spianano, capito?!


Il cantato affiora poche volte. Le urla squarciano la membrana sonora dentro cui siamo stati infilati a nostra insaputa. Sono slanci orizzontali, poche frasi sparate in aria, schiaffate in faccia al padreterno come nel migliore hardcore tradizionale. In quel groviglio di budella demoniache l’accorata invocazione sfiata beffarda come l’esalazione cocciuta di gas mefitico uscito dalle pieghe del corpo tesissimo di un Conan molto più grosso, molto più cattivo e molto più nero di quanto si sia mai immaginato fino a qui. “Grom Tormentor”, “Headless Throne”, “Golden Axe” suonano al limite dell’idiozia primordiale, è vero, ma il metal è la sola musica in grado di ricondurci a quando eravamo solo uno scaracchio di Chtulhu che friggeva sul dorso di una grossa larva dimenante. La musica dei Conan, in questo “Monnos”  almeno, è la cosa più vicina al big bang del metal. Primordiale. Quello che il metal era in principio e che con gli anni in gran parte ha smesso di essere, edulcorato dalle mode dei discografici. Questa è pura radice di heavy metal, sporca della terra dei vermi conquistatori. I Conan ci obbligano a mangiarne fino quasi a soffocare. 
Quando sono uscito dalla macchina, dopo un viaggio lungo verso casa, dall’ospedale dove è ricoverata mia moglie, ho guardato il cielo con in testa una specie di rinculo mentale e ho sentito un gran bisogno di grugnire alle stelle la mia inferiorità pasciuta e mostrare a esse e tutti coloro che vi si nascondono dietro beffardi, il mio bianco e villoso culo. Tutto questo è Heavy Metal! Che Dio benedica i Conan o che ci fulmini. We Don’t Fucking Care! 

(Francesco Ceccamea)