VOIVOD “TARGET EARTH” SECONDO ALESSANDRO ARIATTI

Dura, durissima riprendersi dalla prematura scomparsa di Denis “Piggy” D’Amour, il chitarrista che, con le sue sfuriate cibernetiche aveva, forse più di ogni altro membro posto il sigillo di riconoscibilità su un sound unico e peculiare come quello dei Voivod. I “terroristi del suono” canadesi sono artefici di alcune delle più importanti metal extravaganza degli anni ’80, “Dimension Hatross” e “Nothingface” in primis. Come i loro ex compagni di etichetta Celtic Frost, ma in modo completamente diverso, i Voivod erano in grado di spostare gli orizzonti del metal qualche centimetro più in là dell’umanamente noto. Chi vedeva nel loro mix sonoro delle primordiali iniezioni di punk mutante, chi li catalogava nel filone techno-thrash, chi li candidava a eredi dei Killing Joke. Tutte balle, la verità è che lo stralunato Away ed i suoi degni compari “usavano” tutte queste influenze a proprio piacimento, trasformandole in qualcosa di inedito e completamente “alieno”. Ecco perché a volte, come nel caso del lineare e sommariamente Rush-oriented “Angel Rat”, l’intrinseca bontà della musica veniva oscurata dalla mancanza del colpo di genio che sempre ci si attende dai “lunatics” (pazzoidi) della situazione. Dopo la parentesi più “estrema” vissuta col bassista/vocalist Eric Forrest, che aveva comunque dato frutto al magnifico “Phobos” (su “Negatron” non sarei altrettanto entusiasta), la band ha cercato di tornare agli schizofrenici schemi stilistici della seconda metà degli Eighties, riuscendo onestamente a centrare l’obiettivo solo in parte. Diciamo la verità: al di là della tragica scomparsa di Piggy e della illustre presenza di Jason “Jasonic” Newsted, era inaccettabile che “Infini” fosse ricordato come il testamento di una della più geniali band della storia del metal. 
L’ingresso del nuovo chitarrista Daniel “Chewy” Mongrain, una sorta di clone di D’Amour per aspetto fisico e stile (nonostante alcune comprensibili differenze), e soprattutto il ritorno in pianta stabile del bassista Jean-Yves “Blacky” Theriault, sono la classica quadratura del cerchio per poter riascoltare i “veri” Voivod. Troppo conformista Newsted per assecondare i disegni astrali di Michael “Away” Langevin, visionario drummer/compositore che è da sempre il deus ex machina dietro tutti i concept fantascientifici del gruppo. Ecco perché “Target Earth” è un album importante: perché dimostrerà alle nuove generazioni di cosa sono capaci questi quattro folli canadesi, e perché riaccenderà gli entusiasmi degli “orfani” degli ormai lontanissimi “Nothingface” e “The Outer Limits”. Naturalmente non sono passati circa vent’anni invano, il festival da “gasmask revival” non può prescindere dall’assimilazione di certe sonorità più moderne, tuttavia esse vengono filtrate attraverso l’estetica Voivod. “Warchaic”, ad esempio, è un brano assolutamente incredibile: cesellature di basso e chitarra introducono a un autentico viaggio nel cyberspazio più fluttuante e allucinato, tra assurde dissonanze ed improbabili tempi dispari, il tutto “condito” dalla maniacale voce di Denis “Snake” Belanger. Sembra quasi di sentire la versione “dopata” dei Pink Floyd di “The Piper At The Gates Of Dawn” e “A Saucerful Of Secrets”, e non credo che Syd Barrett si offenderebbe per il paragone: chissà, magari pure lui si è imbattuto in qualche ostile “chaosmonger” durante alcuni dei suoi proverbiali viaggi lisergici. A differenza di molti altri gruppi, ai Voivod non serve affatto un elevato minutaggio per sviscerare quelle che sono le proprie tuttora ineguagliate (ed ineguagliabili) caratteristiche, come nell’impressionante “Corps Etranger”, duecentoquaranta secondi scarsi che ti entrano nell’organismo come i terribili corpi estranei di Prometheus. Nella title-track, posta coraggiosamente in apertura in quanto non propriamente il massimo della fruibilità, Chewy suona addirittura “più Piggy” dell’ultimo Piggy, ricollegandosi direttamente alle incredibili battaglie microcosmiche del masterpiece “Dimension Hatross”, a modesto parere di chi scrive uno degli album più geniali dell’intera storia del metal in particolare, e del rock in generale. Finalmente si è dissolta come neve al sole quell’attitudine simil “garage” che si era insinuata nel quartetto dopo l’ingresso di Newsted che, col suo stile decisamente più conformista, rischiava di trasformare i Voivod in una grande band dall’indole “normaloide”. A tal proposito, “Kluskap O’Kom” è forse il momento che più si avvicina al periodo “Katorz”/”Infini”, nonostante l’eccellente lavoro dietro alle pelli di un Away che “gioca” con certo punk/hardcore d’avanguardia, manipolandolo però a proprio uso e consumo.
“Empathy For The Enemy” scatena brividi cibernetici dietro la schiena, con il corpo che se ne va da una parte, e la mente dall’altra: chitarra, batteria e melodie vocali fanno a gara nell’attirare l’attenzione dell’ascoltatore, col risultato di un’esperienza sublime, totale, oserei dire metafisica. Con “Mechanical Mind” siamo catapultati in piena “Killing Technology”-era, anche se ovviamente la tecnica odierna della band si è maestosamente elevata rispetto a quella pionieristica (ma eroica) epoca. A confronto degli ultimi due brani analizzati, il riff di “Resistance” sembrerebbe roba da “scuola elementare”, tanto da rendere immediatamente inevitabile il confronto con lo snello approccio di “Angel Rat”: tuttavia, l’asfittico break centrale ha il potere di catapultarci su un altro pianeta, come se i Voivod avessero inventato una sorta di teletrasporto sonico. “Kaleidos” alterna ritmiche marziali a riff dissonanti ed alienanti, senza disdegnare alcuni passaggi dallo squisito sapore psichedelico, tutte fasi ben supportate da uno Snake dalla personalità multiforme. Ma non è finita, perché “Artefact” è una continua rincorsa nello spazio profondo tra i “droni” chitarristici di Chewy, il drumming impazzito di Away, e l’agghiacciante ghigno “umano troppo umano” di Snake, elemento imprescindibile per materializzare gli incubi “neuro cosmici” della band. Remember, this is not an exercise.

 

(Alessandro Ariatti)