VOGLIAMO PORCELLAME POLLUTTORIO AUTENTICO – CRASHDIET (THE SAVAGE PLAYGROUND)

 

Riesumare l’hair metal? Benissimo, ma chiunque lo faccia ha l’obbligo morale di restituirgli una dignità, levargli la patina e la prevedibilità che verso la fine degli anni 80 portò alla sua momentanea estinzione e restituirgli la ruvidezza degli esordi, il cuore punk, il dark necrofilo dei primi tempi.
I Crashdiet con questo disco in parte ci riescono. Non sono ai livelli del grandissimo “Slave To The Grind” degli Skid Row, ma graffiano, pestano e a parte quattro o cinque riempitivi di troppo (14 canzoni per un disco rock’n’ roll sono troppe e una cernita forse ci avrebbe dato qualcosa di più cazzuto e massiccio per cui ora ci spenderemmo in logoranti entusiasmi logorroici) in fondo ci sono sei o sette brani davvero buoni, al punto di farci superare il fastidioso revivalismo bonario e furbetto che ha invalidato la maggior parte dei dischi di Tobias Sammet e i suoi Edguy.

I Crashdiet potrebbero fare tanto di più e io mi impegnerei a benedire ogni convento con il loro viscido nerbo se ci mostrassero una volta per tutte la vera dissolutezza, il porcellame polluttorio e non le finestrelle di decadenza perfettina, stantia, tradizionale dei vecchi L.A. Guns. Insomma, nel 2013 non è più tutta ‘sta gran suggestione intitolare un pezzo “Garden Of Babylon”, brano piuttosto lungo ma potente e gagliardo, messo ingiustamente verso la fine perché forse costoro confidano nella pazienza di recensori e fan, ma dovrebbero saperlo che se non si infilano subito i bocconi migliori, si rischia di veder tornar indietro i prelibati dessert e tutta la cena si giudica per le abbondanti dosi di stufato insipido e fettuccine stracotte.
 
 
Forse l’esempio culinario non calza benissimo ma non me ne fotte molto, credo lo stesso di avervi reso l’idea. “Babylon” è in buonissima compagnia: “Drinking Without You” e “Damage Kid” sono squisite leccornie che avrebbero meritato posti di maggior rilievo in scaletta. Vi consiglio di tenervi leggeri sugli antipasti e i primi se non volete arrivare al clou satolli e vagamente disgustati.
Insomma, possibile che questi ragazzi, con la forza e gli ormoni dalla loro non mettano pepe vero nelle composizioni? Dov’è il proibito, la meschinità, il fetore di un pertugio gonorroico? “Snakes In Paradise” ci conduce dalle parti dei Motley Crue di inizio 90, ma Vince Neil e Nikki Six erano davvero rettili in un asilo, mentre questi tizi sembrano descriverci il vizio, la malvivenza spinta più per sentito dire che altro.
Che cosa ci sarà da dire ancora con una canzone intitolata “Sin City”? Ma cosa devo vedere, le luci rosse? Le ballerine con il tanga che fanno su e giù davanti a un grassone sudato neanche fossimo in un episodio di “Law & Order”?
 
 
Molto meglio “California” che per quanto non dica nulla di speciale è pur sempre una canzone cupa e robusta, con unghie lunghe e sporche che ci aprono le labbra in una smorfia sordida e ci tengono la testa, spingendola avanti e indietro per la gioia dell’uomo invisibile. Ritornello meraviglioso dagli echi pop negroidi alla Will Smith, ma ci passiamo sopra perché funziona che è una bellezza. E poi c’è “Cocaine Cowboys”che ha tiro e rancidume quanto basta per lasciarsi andare alla visione di qualche bel vaccaro che balla pieno d’olio su un tavolo da biliardo. “Sì, bello, dimena quel culo. Sei così pieno di coca che scoperesti un alano chiamandolo con il nome di tua madre!” Eccolo il Rock ‘n’ Roll, quello vero, che ti fa stringere le mani sul volante e gonfiare il petto, rizzare i peli e abbandonarti a immagini apocalittiche di animali vermiformi che escono da tubi di scappamento svestendo preservativi color fragola… Ok, esagero, ma il punto è che questo poteva essere davvero un disco di fottuto rockenroll come non se ne fanno più da troppo tempo. I Crashdiet ci riescono più o meno, ma lasciano troppo gioco alle vecchie combinazioni di accordi e melodie delle decadi scorse, in modo blando e senza poterselo permettere. Non hanno scritto “Shout At The Devil” o “I Wanna Rock”, a livello della storia del Rock non sono ancora nessuno, ma si comportano già come dinosauri che non hanno più nulla da dimostrare e chissà quale patrimonio sonoro da amministrare; tipo i Gotthard, con la differenza che due robacce insulse come “Got A Reason” o “Lickin’ Dog” gli svizzerotti non se le permetterebbero nemmeno.
(Francesco Ceccamea)