Anno 2012: un’inversione di tendenza rispetto a questa legge paiono volerla imporre i Baroness. Precedentemente considerati i fratelli minori dei Mastodon, che erano arrivati alla ribalta con qualche anno d’anticipo, in occasione dell’ultimo album come loro si sono spostati verso canzoni dalle strutture più snelle e con melodie in maggior evidenza. “The Hunter” dei Mastodon sembra tuttavia aver in buona parte fallito l’obiettivo: se si eccettua il singolo “Curl Of The Burl”, preso un po’ in prestito dai QOTSA, il resto del disco continua a farsi notare più per l’intricato impeto chitarristico e il tonitruante drumming di Brann Dailor che per la bontà dei refrain.
“Yellow And Green” dei Baroness è di un’altra caratura: la monumentale struttura da album doppio, apparentemente contrassegno di ambizione unitaria da concept, si risolve in realtà in un ampio bouquet di canzoni-canzoni, quasi tutte con caratteristiche ben distinte e con atmosfere anche molto diverse tra loro, a smentire l’idea diffusa che personalità faccia necessariamente firma con uniformità, e che affiancare una “ballad” a un “rocker” sia roba da banali canzonettari hair metal. L’aver optato senza indugi per il cantato pulito è stata la scelta decisiva, quella che i Mastodon ancora non hanno voluto o potuto compiere, per dare ossigeno al proprio sound, per tenere la voce al passo delle sorprendenti armonie chitarristiche di brani quali “Cocainium”, “The Line Between”, “Little Things”, tutti piccoli miracoli di equilibrio tra scorrevolezza e profondità. A sbalordire è il limpido senso di musicalità che pervade ogni singolo attimo del disco: persino i brevi brani strumentali sono ben più che semplici intro o outro atmosferici.
Parlando di rivalorizzazione della forma canzone a proposito di “Yellow & Green” non si deve infatti pensare esclusivamente allo schema riff- strofa – bridge – ritornello (che pure si dimostra ancora perfettamente vitale e utilizzabile con profitto in “Take My Bones Away” o “Little Things”): anzi, il pezzo più ostentatamente easy, “Board Up The House”, è forse il meno riuscito del disco. Gli hook abbondano anche in brani tutt’altro che lineari quali “March To The Sea”, “Back Where I Belong”, “Psalms Alive”, fino al capolavoro “Eula”: sette minuti che scorrono come sabbia tra le dita, una ridefinizione del concetto stesso di crescendo, l’emozione di quel refrain “And I can’t forget the taste/I can’t forget the taste of my own tongue” che davvero non si dimentica. Tutte canzoni a schema libero ma in sé conchiuse e autosufficienti, che non perdono nulla se estrapolate dal contesto cui appartengono. Ciò che si vuole intendere è che si tratta di entità autonome, che valgono di per se stesse e non meramente come segmenti, magari poco distinguibili l’un dall’altro, all’interno del continuum di album da vivere come esperienza sonora unica anziché come somma eterogenea di canzoni ben distinte.
Ecco un buon segno per gli apologeti dell’apertura mentale: “Yellow And Green” sta riscuotendo un notevole successo e molti metallari l’hanno nominato nella playlist del 2012. Niente male, per un disco non metal.
Perché questo è il punto: gli ultimi Baroness hanno creato una grande opera di musica talvolta potente, talvolta romantica, talvolta eterea, allegramente disinteressandosi di quanti e quali contatti mantenere col proprio genere di provenienza. Si sarà notato che nel bucolico “Green” le poche timide distorsioni fanno la propria comparsa non prima della seconda parte di “Psalms Alive”, ben oltre la metà del disco, e che l’atmosfera generale sia ben più elegiaca che demoniaca. Anche nelle parti di “Yellow” in cui il suono si fa più spesso, la matrice deriva da territori non propriamente metal, come i Kyuss per la prima parte di “Take My Bones Away” (l’ingresso del cantato ricorda in particolare “Odissey”). Ha tuttavia poco senso catalogare un lavoro così personale in base alle influenze ricevute, nessuna delle quali pare essere decisamente preponderante.
Così come, se non si può inquadrarlo come metal, è difficile anche farlo in altri modi: per il desolato canto di “Twinkler” si potrebbe parlare a buon ragione di folk apocalittico, se solo tale definizione non evocasse storicamente il baffetto hitleriano, più spesso viene alla mente certo indie rock trasognato anni 90 (musica generalmente invisa anche ai più progressisti tra i metallari), o quel pop psichedelico che i giornalisti metal privi di fantasia sono soliti definire pinkfloydiano. Che il tutto abbia poco a che fare con l’heavy metal lo confermano inoltre i testi intimisti: “I heard your eyes and I touched your tongue/when we were kids we never felt so young/take me to a hazy Sunday morning” suona molto meno ‘metal’ di “Raining blood/from a lacerated sky/bleeding it’s horror/creating my structure/now I shall reign in blood!”.
Una tale evoluzione non era preventivabile da quanto ascoltato sugli album Red e Blue, tanto metallici e spigolosi nel loro sludge-prog-metal tanto questo è spesso morbido e sorprendentemente immediato. C’erano sì delle buone canzoni ma non di questo livello; parallelamente, c’erano deviazioni dall’ambito duro ma non in questa misura. I Baroness hanno insomma scritto un capolavoro ma lo hanno fatto allontanandosi recisamente dal metal, prendendosi il rischio di saltare la tappa del percorso solitamente riservata ai lavori di consacrazione o transizione: come un “Empire” senza “Operation: Mindcrime”, un “Host” senza “Draconian Times” e “One Second”, un “Load” senza Black Album.
I Baroness sono probabilmente destinati a giocarsi le prossime carte nel più ampio mare del rock senza altri aggettivi, lasciando però aperto il nostro problema iniziale: per proporre belle canzoni il metal evoluto si deve evolvere a tal punto di cessare di essere metal?
Seguiamo quindi con gioia i Baroness nel loro percorso, ma per le nuove “Breaking The Law” e “Cemetery Gates” c’è da aspettare un altro giro.
(Alessandro Viti)