Quando parlo di cantautori non posso evitare di pensare a un mio ex-amico di qualche anno fa. Lui pur non avendo un briciolo di sensibilità musicale mi chiedeva di continuo nomi di band rock da provare. Si era messo in testa che doveva piacergli il rock. Era una sorta di indomita ricerca che mi prese il cuore. I Queen gli piacevano e anche “Noccking’ on Hevensdor” dei Guns ‘n’ Roses (!) e quindi ne voleva ancora, di rock. Sentivamo musica in macchina per ore ma alla fine non gli andava bene niente. Fingeva di sì, ma non me la bevevo. Ci provava a sentire i Doors, gli Stones, gli Who, ma continuava a non cagarseli. Se mettevamo una band, dopo cinque minuti abbassava il volume e ci parlava sopra. Se stavamo ascoltando i Jethro Tull, i Rolling Stones, lui era capace di intonare a gran voce da barilottono, un brano dei Beatles con le parole inventate. Capivo che era un pezzo dei Beatles non dalla melodia, visto che il mio amico era stonato come un cane, ma solo perché cominciava sempre con Heujuud e poi proseguiva sull’aria di Let it Be e non gliene fregava niente. Era frustrante perché cercavo di trovargli io per primo qualcosa che potesse piacergli sul serio: provavo con il meglio che ci fosse in giro, l’abc della musica rock dai Cream ai Dire Straits, ma niente.
Hail! Hail! Hail and Kill! |
Io gli dicevo, “sì, bel testo, ma cazzo, senti questi arrangiamenti, sembrano quelli dello zecchino d’oro!”
Lui non mi capiva: “le parole, ascolta le parole, cazzo”
Meglio De André, almeno negli anni 70 usava i suoni dei gruppi progressive, anche se alla fine, pure lui si rese colpevole di certe distorsioni di chitarra da far schifo. Ma De André fu quello che sperimentò con la musica, che non trascurò la base d’accompagnamento, come i Nomadi. Oddio, i Nomadi…
Per inciso, io odio i Nomadi |
Insomma, era mortificante per un appassionato di musica vedere la parte strumentale ridotta a una discreta filodiffusione per i versi da poeta del “poeta”. Il colmo fu la P.F.M., a servizio da De André.
Poco prima della morte di De André, più o meno da quando Fernanda Pivano decise di far scoreggiare il cervello fino al rischio di ictus, erano tutti diventati poeti: nuovi geni della letteratura, i cantori della modernità. De Gregori, De André, Tenco (l’anima blackster, estremista, del genere), Vecchioni, Conte, Capossela, Branduardi e Guccini. Ma anche Ligabue, Jovanotti, Niccolò Fabi e Vasco Rossi. Poeti, cazzo. E Battiato? Lui, no, era quanto meno un sospettato, ma forse si trattava di fuffa. Già, con quella continua intrugliante commistione tra alto e basso e quella simpatia che gli veniva dalle giovani leve del centro destra, non poteva andare con il resto della ciurma di ex sessantottini e nuovi simpatizzanti repubblichini (nel senso del quotidiano). E poi c’era Gaber, che poco ricordò a tutti che i dischi di canzoni li sapeva fare ancora, poi morì uscendo dal teatro e il suo posto lo presero Iacchetti e Marcoré per i secoli seculorum.
Highway to heeeeeell! Highway to heeeeell! |
Al resto della beatificazione pensò La Repubblica con le sue pagine culturali degne del Fazio più sperimentale e coraggioso. Iniziarono ad applicare il canone Hikmet, Kavafis, Edga Lee Masters, Emily Dickinson, De André e Vecchioni come modelli di qualità e di poesia inamovibili.
(Francesco Ceccamea)