Non ha senso, parlando del Festival di San Remo, fare quello che il festival e chi lo organizza vuole, ovvero polemizzare. Durante il festival polemizzano anche i tori e le meduse. Tutti in polemica! Non voglio trasformarmi anche io, come fanno tanti opinionisti appositamente per la settimana festivaliera, in critico televisivo competente che attacca le scenografie, la regia, la scaletta di uno spettacolo goffo, decadente, a tratti quasi dilettantesco. Io di tv non capisco nulla e lascio e lascio l’onerosissimo compito di giudicarla ad Aldo Grasso. Non mi curo neanche di tutta la questione economica, lo sperpero in faccia alla gente terrorizzata dalla crisi, i cari abbonati che ancora, per dovere civile o coatto, tirano fuori i soldi del canone e li vedono buttar via così.
Insomma, non mi interessano le solite chiacchiere su Sanremo. Vorrei solo provare a dirvi come stanno le cose, senza farvi perdere tempo nei soliti giochetti leziosi, gli editoriali acuminati, brillanti, illuminati contro un modo di fare tv conservatore della peggior specie, in cui la donna è solo un oggetto da sventolare in faccia agli ascoltatori o un mezzo contundente con cui ravanargli le palle…
e l’uomo è il patriarca che si siede a capotavola e dall’alto della sua vacuità ci insegna il garbo e le buone maniere della conduzione spiritosa. Tanto meno voglio difendere questa fiera fracassona, concepita apposta per distrarci tutti da problemi ben peggiori. E’ vero, Sanremo è fatto così bene per distogliere l’attenzione degli italiani, soprattutto in quest’anno di spietate sodomizzazioni fiscali. E gli italiani vogliono essere distratti, si incazzano (e a ragione se il comico non trova di meglio da fare che imitare ciò che la gente è stufa di subire persino nell’imitazione).
Il festival è così perfetto nel distrarre, da riuscire a farlo persino da se stesso. Qualcuno ha idea di chi sia il vincitore della gara? O addirittura: sapreste dirmi almeno cinque dei cantanti che vi hanno partecipato? È sempre stato così e sempre lo sarà. Basta fare una passeggiata in strada, chiedere ai passanti, alle casalinghe, i vecchietti, i ragazzi fermi davanti ai bar cosa ne pensano del Festival di Sanremo. Tutti rispondono di non poterne più, di detestarlo, di desiderarne la chiusura. Questo non da oggi. Sono quindici anni che se ne parla così, eppure, a febbraio, eccolo che ricomincia, come se qualcuno lo volesse ancora, sempre e comunque, sul serio. Pensare che alla fine degli anni 70 questo abominio era quasi morto, si era ridotto a una sola serata trasmessa senza troppi proclami, senza tutto questo sperpero di chiacchiere e soldi o di fiori. Ecco, i fiori. C’è qualcosa di più inutile? Pensate a quanti se ne comprano per i funerali solo per olezzare quei quaranta minuti di messa e poi lasciarli marcire intorno al loculo. I fiori sono il simbolo perfetto della città e quindi del festival che ne prende il nome: la cosa più costosa e inutile che ci sia ma a cui è quasi impossibile rinunciare. Il Teatro Ariston ne è pieno per cinque serate. Subito dopo però, come anche le polemiche, le invettive, i fischi e gli applausi, i fiori appassiscono e vengono bruciati nel grande falò del riciclo catodico. Addio. Al prossimo anno. Non credete a tutti coloro, opinionisti, giornalisti, inserzionisti cattolici, laici che maledicono incessantemente il Festival e la sua lussureggiante vacuità, perché costoro ci campano. I giornalisti che l’hanno massacrato senza alcuna pietà, sono andati ad accendere un cero al nonno di Fazio, ogni mattina di quest’ultimo mese.
Cosa è in fondo il pubblico di Sanremo? Questa audience così definita e inossidabile che apparentemente esce dagli scatoloni insieme ai tappeti e i microfoni del Festival? Non sembra esistere se non per una settimana all’anno, come evocata in un sabba del Mago Otelma. Non fa parte dei milioni di persone che ogni giorno scaricano migliaia di file pornografici da You Porn o da Cliti.it? Morandi stesso, lo scorso anno, per presentare la Premiata Forneria Marconi si lasciò andare al suo inglese stentato degno di Mike Bongiorno e li chiamò Pi Ef Em? Davvero il pubblico Sanremese aveva bisogno di sentire il nome della band nostrana più famosa nel mondo? È come se ogni volta il vetusto pubblico Sanremese fosse riesumato giusto per essere scandalizzato, destabilizzato, provocato con ospitate comunque datate nella loro anticonvenzionalità. Il pubblico Sanremese, va detto, per quanto sembri vecchio e irrecuperabile, esattamente come lo spettacolo stesso a cui appartiene per forza di cose, in realtà è vivo e reattivo. Gli applausi mancati, abortiti sul nascere, il gelo di battute non capite, i fischi a maestri della provocazione verso cui ormai anche le nostre nonne hanno iniziato a prendere le misure, sono la prova che, per quanto sia un pubblico arretrato, antico, è pur sempre più reattivo di quello che segue le tante trasmissioni cosiddette “moderne” di Mediaset o Sky, dove gli spettatori sono sempre pronti a ridere, applaudire l’ennesimo ritornello demente di Zelig o la mediocre performance canora di un Fiorello. C’é da chiedersi se era preparato anche il pubblico. Collaudato, diretto da un sapiente gestore di applausi e borbottii, come ce ne sono in tutti gli studi televisivi. Non si sa, ma vorremmo credere che non sia così. Come speriamo che prima o poi si cominci davvero a parlare di ciò che il Festival di Sanremo è davvero.
Sanremo è una disperata, cinica macchina dello spettacolo, che continua a mostrare al mondo (il poco mondo che ancora perde tempo a guardarci) un’immagine dell’Italia che non esiste e che non ci onora, ma che senza dubbio, a chi non vive a Vetralla, ma a Vienna, di sicuro sembra attendibile. L’ideale sarebbe smettere di conviverci, rinunciare una volta per tutte a questa cosa che ogni anno ci martella senza pietà pur di nasconderci la sua totale inutilità, ma credo sia vano, utopico, esattamente come smettere di asfissiare i dolenti, con tutti quei fiori, ai funerali. In fondo il funerale sarebbe la perfetta metafora di uno spettacolo che ogni anno celebra il suo ciclo vitale. Il Festival sembra un fantasma che nella sua cocciuta permanenza in questo mondo, si ripresenta ogni tot di tempo nella vecchia casa abbandonata che è oggi il nostro paese: passa in mezzo alla nostra nevrotica e ansiogena modernità fatta di facebook, pornografia, asteroidi e guerre economiche sotto mentite spoglie, dopo aver tentato di distrarci conquistando il suo piccolo spazio nel mondo dei vivi, lo spettro torna nella fossa da dove è venuto e da cui tornerà inesorabilmente. Possiamo ricorrere a immagini ancora più tetre, se vogliamo, ma sarebbero inutili a esorcizzare la mortuaria florealità di uno spettacolo sempre più malato, certo, ma senza dubbio immortale. Fino al giorno in cui non smetteremo di crederlo tale.
(Francesco Ceccamea)