Come molti di voi già sapranno il sottoscritto ha un debole per tutte queste vecchie band che tornano in pista sorrette da un entusiasmo birichino che la vince sul catetere, acciacchi e spasmi senili. Sono così adorabili, no?
No. Stavo scherzando, avrei un discorso nazista per tutti loro, ma lasciamo perdere sennò Signorelli dice che sono ripetitivo. E proprio perché non voglio esserlo scrivo una recensione sull’ultimo album dei Manilla Road, band “de culto” tra le più sottovalutate o sopravvalutate della storia del genere, fate un po’ voi. Scrivo di loro perché il disco che hanno fatto mi ha conquistato proprio grazie ai difetti tipici di un lavoro old skool. Suoni tremendi, esecuzione peciona (ma mi assicurano da più parti che le precedenti prove siano ancora più indegne), coerenza coatta e tanti rimpianti. Ecco, sotto questa coperta disgustosa ci sono alcune canzoni meravigliose che mi si sono rivelate non prima del quarto ascolto (e forse per voi ce ne vorranno anche di più) e adesso non riesco più a separarmene. La bellezza di questi brani trova il suo ideale compimento proprio nella sciatteria della confezione e nell’indolenza compositiva di un gruppo che ormai ha perso fin troppi treni e solo la voglia di fare ciò che a fasi alterne hanno creduto di saper fare, li spinge ad aggiungere un nuovo capitolo discografico, ora che sembra così facile riuscirci.
“Mysterium” è crepuscolare, certo, fin troppo scontato usare questo aggettivo. I brani migliori, “The Grey God Passes”, “Hermitage” e “The Battle Of Bonchester Bridge” procedono incuranti del minutaggio e delle regole moderecce, anche se in questo periodo fare i Manilla Road può essere una moda.
Sono pezzi rispettabili, d’esperienza, dall’aria addirittura “corta” (cultura in romanesco).
Poi però c’è un fosso nel mezzo del disco di noia e imbarazzo proprio nel mezzo del disco, parlo di “Do What Thou Will” e “Halloweed By Thy Grave”. “The Fountain” e “Mysterium” per fortuna mi afferrano la mano e con una vigorosa strattonata mi portano via.
La cosa migliore del disco è la voce sorniona, quasi crooner del cantante. Non va oltre la sua unica ottava naturale neanche se lo minacci di morte con un coscio di pollo spuntato, ma riesce a carpire il cuore con una facilità che Warrel Dane se la sogna. Le progressioni di chitarra spesso sono pasticciate e nascoste sotto una distorsione fuzzosa: vogliono far bere all’orecchio meno esperto chissà quali scale iperveloci, ma basta tornarci su un attimo per sgamare il troiaio alla Richard Benson. Il batterista ha bisogno di far chiarezza nel proprio cervello dato che nei primi tre brani ci mette rullate e stop che non centrano unca.
Nonostante le apparenze ne sto parlando bene, però. “Mysterium” suo malgrado è un grande “Walkingdead album” e ve lo raccomando. (Francesco Ceccamea)