Tutte le canzoni dei Black Tusk, dal primo all’album vanno avanti non oltre i 3 minuti e mezzo e di solito non superano la decina di brani complessivi, ma alla fine ti chiedi come cacchio abbiano fatto a raggiungere il fondo senza ucciderci di noia. I Black Tusk hanno le canzoni, questo è chiaro. Almeno un paio nel secondo e quattro (dico quattro) buonissime nel terzo e ultimo, ma il resto sembra una sbobba scritta su sei piedi (due per ogni membro) anche se a volte sembra che i membri siano tre e niente gambe. Va bene mi sto incartando, del resto con la matematica ho sempre avuto serie difficoltà e quindi torniamo al metal e ai Black Tusk. Sono il gruppo che può far impazzire la critica perché in quei quattro riff alla Black Sabbath ci puoi trovare di tutto, a livello concettuale intendo. I recensori più ispirati parlano di questi tre bigonzi rotolanti come di un bel dito medio in faccia a tanta musica plasticosa, patinata, ragionata a tavolino fanculo alle pose nichiliste per adolescenti tipo gli Slipknot, tanto per dire la prima band che corrisponde all’identikit. Ok, condivido, peccato però che i poveri Black Tusk di Savannah, non valgano la metà dei 9 di De Moines (Iowa), con tutto che sono il primo a non aver mai digerito troppo il pagliacciume delle maschere e le dichiarazioni d’intenti anticonformistiche.
Insomma, andiamo, questi tizi, i Tusk, sono puro istinto, si chiudono in una stanza e senza eccellere con il proprio strumento riescono a tirar fuori qualcosa che fila e che fonde, fanno uno stacco ogni tre minuti e mezzo, si bevono una birra, e nel giro di venti minuti hanno pronto un album. Magari non è così e loro sono degli intellettuali che rivedono il metal mescolando le carte fino a creare un blob indecifrabile contro cui hanno cozzato recensori su recensori, rimasti impalati con il retino delle classificazioni in alto sulla testa. Ma che differenza fa? Che ci si mettano con intenzioni maniacali o che scorreggino riff con il registratore sempre acceso, il bicchiere di birra mezzo pieno e stacchino giusto in tempo per impedire che le salsicce sfregolanti sul barbecue non si riducano a dei grossi peni di negri malarici, il risultato non cambia. I dischi dei Black Tusk sembrano fatti di corsa, da gente che fa di necessità virtù e passano per le mani di benevoli giornalisti che non vedono l’ora di descrivere scenari di White Trash fatto di alcol, ciccia e barbe lunghe.
Sul serio, se hai molta fantasia la musica di questi tre tizi può davvero diventare una tela bianca su cui ergere visioni contaminate di pop culture da far venire gli incubi a Stefano Giusti. Il problema grosso però è per chi come me non ha molta fantasia e difficilmente si lancia in proclami teorizzanti e terrorizzanti sullo spessore, sul profondissimo contenuto di un gruppo, sul genio di chi riesce a usare il dizionario di un bambino per raccontare la Bibbia intera (a meno che non si tratti dei Valient Thorr). I Black Tusk ci danno dentro e mi sono simpatici, ma in fondo mi chiedo, ci sarebbero se non fossero nati nello stesso tempo dei Baroness, i Mastodon, i Red Fang e i Lamb Of God? Perché noi capiamo o crediamo di capire i Black Tusk solo perché ce li hanno anticipati quei quattro nomi che ho appena elencato. Se non andasse tanto di moda lo Sledge Stoner staremmo qui a parlare anche di Black Tusk? La fortuna di questi tre è indiscutibile, sono nati a Savannah, il numero tre è sempre meglio del numero due e siamo nell’era delle barbe e dei gilet pieni di toppe e ci sono dei pazzi come me che passano giorni e giorni a spaccarsi il cranio sull’apparente semplicità e piattezza della loro musica per poi scoprire che dopo il ventesimo ascolto sono esattamente ciò che sembrano dopo il primo. Si mimetizzano con il fondo del nostro cranio, tendono a mettersi in un angolo, come il diligente score delle colonne sonore classiche dei film più Hollywoodiani, quelle che non te ne accorgi ed è proprio ciò che si cercava di fare. Si mimetizzano con lo scroscio deprimente di una giornata autunnale che finisce troppo presto oppure si confondono con le chiacchiere di qualche cazzone che fuma canne e si mette a leggere quel cazzo di saggio sulle droghe firmato da un certo Baudelaire.
“Embrace the Madness”, “The Crash”, “Carved in Stone” sono dei bei momenti ma in fondo continuo a impazzirci sopra. Come cavolo fanno a cavarsela con così poco?
Ma perché nemmeno ci provano, si divertono a pestare con quattro accordi e in fondo hanno ragione loro è questo che vogliamo, altro che i poveri Hammer Of Misfortune. Giusto?
Un paio di palle, ridatemi i Virgin Steele, piuttosto!
Questo disfattismo metallico non fa onore a nessuno e sono sicuro che nemmeno i Black Tusk sarebbero felici di sentirsi liquidare come tre marmittoni che fanno finta di sbattersi o si sbattono per davvero per farci credere che in fondo non si sbattono per nulla e l’unico principio estetico che seguono è il “come viene viene”. I Black Tusk si impegnano, fanno il metal della palude, quello dei Cajun, che come si dice nei film, a proposito della loro cucina, fa venire l’acido, ma non in senso lisergico. La sensazione mia è che con il primo disco, quasi hardcore nei tempi serrati, minimali e al gozzo dell’ascoltatore, tutto sommato siano stati più interessanti che con il secondo, tanto osannato “Taste The Sin”, che soprattutto nella seconda parte arranca su riff e cambi di tempo da parrocchietta satanassica. Il terzo “Set The Deal” non è niente male, c’è un miglioramento nella scrittura e una maggiore consapevolezza dello stile, ma non al punto di alzare la posta e chiamare un cantante o un chitarrista vero che dia spessore a quel modernariato del metallo giungiante. Le canzoni hanno un senso fastidiosissimo di incompiutezza, come se fossero uscite dallo studio d’incisione prima che una parte della band ci suonasse sopra. Sembrano promettenti basi di canzoni che non ascolteremo mai, a meno che non ci ci si metta a suonare sopra anche noi. In un certo senso poteva essere una buona idea commerciale.
“Black Tusk, c’è posto per te, completa tu le canzoni, salta su con Black Tusk.
Black Tusk, heavy metal interattivo creativo, altro che guitar hero”.
Dispiace che gente con le palle e che si sbatte per mesi su un disco venga criticata per il suono o per la prevedibilità di alcune composizioni, mentre questi tre cazzoni convincono tutti al primo ascolto. Sono i figli della palude, puzzano e sporcano, allora meno li teniamo con noi in casa e meglio è, diamogli due noccioline e mandiamoli a caccia di tartarughe.
Le copertine disegnate dal cantante dei Baroness, Baizley, sono la cosa che penalizza di più i Black Tusk. Non saprei, sembrano scene agresti concepite direttamente a Woodstock da un predicatore in libera uscita che si pappa un acido per vedere il diavolo in faccia e scopre il paradiso che c’è dietro la zona oscura del proprio Io.
A dire il vero tutte le copertine disegnate dal cantante dei Baroness sviliscono quasi tutti i dischi su cui vengono messe e anche con i Baro… non centrano quasi nulla; ma per i Black Tusk sono il colpo di grazia.
Ti avvicini al disco immaginandoti una perfetta fusione tra Uriah Heep e Blue Oyster Cult e ti ritrovi questi tre pierini che farneticano sludge-core-stoner-proto-punk-core-roll-swamp-metal e ti senti ingannato, ma la colpa è tua se giudichi bene un libro dalla copertina, la stessa cosa vale per il disco.
Magari tra dieci o quindici anni li troveremo ancora qui che fanno un album di 20 minuti, dodici tracce tutte uguali e non ci saranno altro che applausi, ma per ora chiediamo di più, molto di più ai Black Tusk perché chissà come mai, sentiamo di poterlo pretendere. Insomma, guadagnatevela un po’ tutta l’attenzione che il mondo vi rivolge!
(Francesco Ceccamea)