KING DIAMOND – L’EFFETTIERA VOCALE POSSEDUTA DAL DEMONIO – seconda parte

iiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiihhhhhh!

Ascoltare “Don’t Break The Oath” è un’esperienza non appagante quanto “Melissa” ma molto interessante per chi preferisce i dischi che raccontano qualcosa di extra oltre che snocciolare note e “fanfarare” di spettri o messe nere. Amo i lavori che sono pregni della vita che gli si è consumata attorno. Il secondo album della band danese infatti è la cronaca fedele di una rottura. Tutti sanno la storia: Hank Sherman (il cattivo) voleva spingere il gruppo verso un genere più morbido, accessibile e radiofonico, mentre King (il buono) preferiva continuare nella solita direzione metallica. Il secondo album risentì molto di questo dualismo e il tutto poi si risolse con lo scioglimento. Sherman mise in piedi i Fate, discreto progetto melodico dai risultati commerciali deludentissimi e King Diamond i Mercyful!… ahahhaha, no dai scherzavo.
King inaugurò la sua carriera solista con “Fatal Portrait”, portandosi dietro l’eredità stilistica della sua ex band ma sfoltendone un po’ gli aspetti più tetri e seriosi in favore di un’estetica glamour e cazzona. Il disco non è un concept e per Diamond è cosa abbastanza atipica, visto che dal secondo lavoro in poi inizia con una sequela di opere horror rock teatrali da cui non è uscito praticamente più vivo.

Il primo album è discreto, ci sono canzoni da sballoween come “The Candle” e “Charon” e io lo vedo un po’ una specie di film a episodi, di quelli della Amicus diretti da Freddie Frencis. Questo anche per dire che alcuni momenti sono buoni e altri meno.

“Abigail” invece è per molti il capolavoro assoluto. Di sicuro è un ottimo disco, non si discute, ma personalmente non mi ha fatto mai impazzire e più passa il tempo, più lo trovo datato e prolisso (e adesso frustatemi ok?). C’è troppo riverbero per quella doppia cassa tirata, è zeppo di controcanti che neanche i due Keeper messi insieme ed è decisamente power per essere un’opera horror rock. Vero, il power non esiste ancora come etichetta e Abigail è fruibile alla grandissima se guardiamo le sue complessità strutturali sopra la media di quegli anni. Gli Helloween si sognano un equilibrio così felice. Key Hansen fa qualcosa di simile a Diamond nel brano “Halloween” ma alla fine di quei dieci minuti di riff e riff e riff e melodie esasperate mi sento sempre così spossato. Per carità, quella di Key è una grande canzone che ho sempre apprezzato molto e il primo “Keepers Of The Seven Keys” è dello stesso anno di Abigail, il 1987, quindi non possiamo parlare di ruberie e influenze, diciamo però che entrambi i lavori sono nati dalla stessa cicogna ispiratrice, con tutti i pro e contro del caso. 
Diamond da quel momento, complice Andy LaRouque, inizia a saccheggiare Randy Roads e si immerge ancora di più nella goliardica e tamarra atmosfera degli anni 80, alla faccia del vecchio Hank e di tutti quelli che impazzivano per il neoclassico armonizzato sulle note alte e per le cavalcate alla Iron Maiden.

Ecco, il principe delle tenebre vi spara con le sue pistoline… sono sicuro che l’ha scattata il fotografo dei Dokken.

Rispetto ad “Abigail” io preferisco di gran lunga “Them”, per esempio… 

 

e l’incompreso “Conspiracy”,

prima e seconda parte di una ghost story che mi ha sempre fatto strippare. A parte i brividi, provo anche un profondo struggimento per via del brano “Tea” in “Them” (disco dalla produzione ignobile, concordo). Non so voi ma quando sento quel pezzo (“Tea”, dicevo) mi ritrovo nudo, appena uscito dalla doccia durante una serata estiva che puzza di erba falciata e piango il mio amore perduto davanti a un tramonto alla pummarola. Chiudo gli occhi e il coro claudicante del ritornello, con quel sardonico “This Is Time For Tea” riesce a commuovermi più di tutte le Imagine possibili.

Oltre ad avere in formazione alcuni dei più brillanti turnisti del metal anni 80 (Mikkey Dee, Mikkey Dee, Mikkey Dee…) “Conspiracy suona ancora alla grande e migliora con gli anni. Ha una produzione incredibile e spacca, con buona pace di Signorelli, che nel suo libro per la Giunti lo silura senza pietà… anche se in altra sede l’ex redattore di Metal Hammer più famoso del west ha ammesso di non aver mai creduto fino in fondo al sovrano danese di valle falsetta.

Is The ayyyofthewicc…yehe!

“The Eye” è un album minore, lo so, ma uno di quelli che mi porto nel cuore. L’inizio del disco, con quel giro di tastiera scippato ai Goblin ci conduce alla serie B pura, però che enfasi, che galvanizzazzio ejiaculorum quando partono chitarra basso e batteria  e trasportano la nenia malefica con la spinetta della Roland su un trono di ceppi pronti per far da brace al peccato originale. Gium Gium Gium (ragazzi, non fate quella faccia, si tratta di pura avanguardia critica, sapete?) Gium Gium Gium. E invece “The Trial” dove la chitarrona parte con quel riff stoppato: gium gium giurugium (possiamo chiamarla critica onomatopeica, se volete) gium giu giuuum, gium giu giurugium giun gium giun gium. Cazzo, viene giù la parete e con essa tutto il mio venefico malessere stagionale. Viva, triunfo! Brruciamo quella cazzo di strega!

In verità vi dico che qualcuno di voi ha appena scoreggiato.

“The Eye” è prodotto benissimo per quanto riguarda la voce e se non l’avete ancora capito è la storia di una strega bruciata sul rogo, nel 1642… o forse erano due… 
Tutto sommato la formula del concept inizia a essere scontata e prevedibile, come una rassicurante prigione per la creatività di King Diamond e a tal proposito occorre sfatare un altro mito. Si pensa che come forma compositiva, quella dell’album concepto sia difficile, faticosa e vera sfida piena di ambizione ma in realtà offre dei vantaggi di metodo a cui una volta fatta l’abitudine diventa difficile all’artista rinunciare. Tutti quelli che cominciano a fare concept poi non la smettono più. Prendete i Virgin Steele, oppure i dannatissimi Blind Guardian.

quanto non li sopporto! E pensare che li amai…

Nel 1993 King fece una piccola pausa con “The Spider’s Lullaby” che nonmipentodidefinire… 

robetta e mise di nuovo la testona maculata nel comodo anfratto dell’opera concetto, sfornando album come 

dai, è la stessa casa di “Them” solo che hanno licenziato il giardiniere

“Voodoo” (oddio, quel ritornello ammiccoso degno del più flaccido Rob Zombie: “voooodoooo… voooodoooo… vooodoooecchepalle!) e… 


“The Graveyard” dove la vena creativa ristagna quanto un peto nella cripta della famiglia Venticello. Avrebbe fatto meglio a prendersi una pausa visto che nello stesso periodo oltre a questi dischi senza sale, Re Diamante contribuiva a riportare i Mercyful Fate, (riformatisi dal 1993) quasi alla stregua dei vecchi tempi. In più stava male con la voce e secondo molti la sua carriera sarebbe finita presto anche se il mondo del brutallo era davvero ammirato dal suo stakanovismo in mi cantino. Su questi duri giorni chiudiamo la secondo parte e vi diamo appuntamento a domani, sempre che Chtulhu non abbia nulla in contrario. 

I Mercyful Fate sono fichi!


(Francesco Ceccamea)

 
Se vi siete persi la prima parte cliccate kvi.