Appena un anno e si cambia totalmente registro, “Calling The Rain” (’95) è una collaborazione ibrida con Yasmine Krull, sorella un po’ punkabbestia di Alex. Si tratta di un disco pagano, bucolico, intimamente folk, delicatissimo e rugiadoso ma anche profondamente arcaico e tribale. Suggestivo e piuttosto inaspettato, considerando ciò che la band aveva realizzato fin lì. Non tutti gli estimatori del gruppo infatti rimasero ben impressionati da questo ulteriore coup de théâtre, tanto più che il disco è sostanzialmente acustico, e insomma, i deathsters, soprattutto da sobri, tutta questa sensibilità d’animo potevano anche non avercela. Ancora oggi c’è chi lo esalta come un disco apripista per future band (tipo Nightwish), chi invece non lo riconosce come un album “alla Atrocity” (qualsiasi cosa ciò voglia dire). “Calling The Rain” lì per lì pare un inframezzo, una release interlocutoria, un ponte verso nuovi approdi.
Dopo l’iniziale fase death oriented ’88 – ’92, gli Atrocity annusano i prodromi del groove e del cosiddetto “modern metal” (poi, ma molto poi, sfociato nei vari nu-corismi). “Blut” e “Willenskraft” cascano anche un po’ lì, per quanto al loro interno ci sia talmente tanta roba che ridurli a una mera definizione di “groove metal” è davvero ingeneroso nonché demenziale. “Blut” (’94), spinto da tematiche filologicamente draculesche, è pieno di malinconia e goticismi; c’è del thrash, del death, ci sono dissonanze continue e straniamenti acidi, c’è una Romania agreste e crepuscolare (gli Atrocity andarono veramente fin laggiù, per girare un videoclip nel castello di Vlad Tepes) che ti entra dentro e ti possiede come la forza mesmerica del sangue nero di un Nosferatu.
E però, subito dopo (sempre nel ’95) arriva “Die Liebe”, altra collaborazione, stavolta con i diavoletti Das Ich, impelagati con l’EBM e ossessionati dalla cultura espressionista tedesca. Accantonato il folk, almeno nel senso più tradizionale del termine (anche se di retaggio popolare tedesco ce n’è parecchio in questi solchi), “Die Liebe” è un vero è proprio trip acido post industriale, elettronico, scorbutico, spigoloso, sgraziato, marziale. Gli uni reinterpretano le canzoni degli altri, e si uniscono nella cover di Laibach (“Die Liebe” appunto). Anche qui gli Atrocity fanno una bella scommessa, mettendo assieme due fette di pubblico che fino a quel momento non avevano osato neppure incrociare i rispettivi sguardi. Se ascoltavi i The Sisters Of Mercy o i Fields Of The Nephilim non potevi avere a che fare con Sodom e Kreator, e viceversa.
Al medesimo humus attinge pure il successivo full-lenght “Willenskraft” (’96), potenza distruttiva allo stato puro, clangori industriali fusi col thrash/death plasmato ad immagine e somiglianza degli Atrocity. Un’idea tutta loro di come potesse suonare un ipotetico genere così composito. L’asticella della violenza si alza un po’ rispetto a “Blut”, ma la componente sperimentale rimane preponderante, pur faticando a tener testa con la dovuta determinazione alla foga degli strumenti. Simpatizzanti di destra videro nel concept del disco una affiliazione politica esplicita da parte degli Atrocity (c’è pure un sample con la voce dello zio Adolf), i quali, per tutta risposta, ed evitando ogni equivoco, presero a sfasciare svastiche a colpi di mazza da baseball durante i concerti.
Ora, una band che nel 1996 aveva fatto tutto quello che avevano già fatto gli Atrocity, esplorando tanti e tali territori musicali, un anno dopo un album “uraganico” come “Willenskraft”, dove poteva andare a parare? Ma è ovvio, sulla rivisitazione in chiave metal di classici pop e dark pop anni 80 (…..no, non era ovvio per niente, stavo scherzando!). Adesso pare una roba fatta, strafatta, inflazionata e banale, ma nel 1997 è venuta in mente agli Atrocity, mica agli Him o ai Children Of Bodom! E che disco che è “Werk 80”, divertentissimo. “Shout” (Tears For Fears), “The Great Commandment” (Camouflage), “Der Mussolini” (D.A.F.), “Das Letzte Mal” (D.A.F.), “Die Deutschmaschine” (And One), “Verschwende Deine Jugend” (D.A.F.) sono delle vere chicche, così come l’artwork del disco, che introduce la nuova fissazione estetica della band, donnine di stampo fetish pronte a soddisfare tutti i nostri più abominevoli desideri reconditi e inconfessabili. Infatti i tour del periodo hanno coriste e performer che fanno volare alto i sogni proibiti dell’audience. L’album conta un bel po’ di collaborazioni, tra le quali sempre Bruno Kramm dei Das Ich (che già aveva prodotto il chirurgico “Willenskraft” nei propri studi) e la fatina Liv Kristine Espenaes, neo moglie di Krull. Il successo è stratosferico, il disco vende a palate, inaugura una vera e propria moda di revival ottantiano, e in Germania supera in classifica persino i Kiss (dico, i Kiss).
Nel ’99 esce “Non Plus Ultra”, gran bel raccoltone celebrativo sul quale vi consiglio di riporre un pensierino se siete proprio a digiuno di Atrocity e volete qualcosa da cui cominciare. Poi arriva “Gemini” (2000), disco in studio numero 8 dei figli del Baden-Württemberg, il modo con il quale gli Atrocity decidono di salutare l’arrivo del nuovo millennio, naturalmente all’insegna della cyber-tecnologia più sfrenata. E ancora una volta è rivoluzione. “E che kaiser, se lo fanno i Rammstein possiamo farlo pure noi!” – si devono essere detti gli Atrocity, ed ecco che “Gemini” rappresenta la loro personale rilettura della Neue Deutsche Härte. Un disco smaccatamente fighetto, fashion, ammiccante, con addirittura la cover di “The Sound Of Silence” di Simon & Garfunkel, un artwork sempre più erotizzante, ed un tentativo affatto mascherato di far breccia sui dancefloor dei catafalchi goticoni e imbelletati di pizzo e latex.
Il disco è ruffiano? Hai voglia se lo è! Però è anche un grande disco, con ritmiche da Dio e dei chorus che “acchiappano” alla grande. Insomma, avete presente quella sensazione di sentirsi presi per il culo, dolcemente lisciati e viziati, ma pur perfettamente consapevoli di ciò, sentirsi bene, a proprio agio, tanto da lasciar fare? Perfetto, preciso, quella! Licenziato dalla Motor (divisione della major Universal), venne accolto in modo ambivalente (sai la novità…), troppo poco metal per alcuni, very very avantgarde per altri.
… To be continued!