Krull oramai è un business man a tutti gli effetti, non solo presiede a due band contemporaneamente, ma possiede anche i Mastersound Studios, dove decine e decine di gruppi metal (di area prevalentemente mitteleuropea) hanno prodotto i propri album, e che non di rado hanno visto l’apporto compositivo del duo Krull/Bauer. Inoltre c’è tutto il capitolo della carriera solista di Liv Kristine, ennesima variazione sul tema Atrocity/Leaves’ Eyes, poiché nella stanza del “pensatoio”, e agli strumenti, gira e rigira ci sono sempre gli stessi musicisti, Bauer compreso (anzi, soprattutto Bauer). In questo caso si tratta di pop puro poiché, quando balla da sola, Liv gioca la carta della musica commerciale ma sofisticata, come fosse una novella Kate Bush o Róisín Murphy. Il primo album “Deus Ex Machina” (’98), fu più che altro una performance come cantante, tutti brani impacchettati da altri e consegnati a Liv perché ci mettesse la voce sopra, una specie di vestitino gothic, come si prevedeva sarebbe dovuto essere per l’allora cantante dei Theatre Of Tragedy. Un buon album assolutamente (c’è pure l’ospitata di Chris Homes su un brano che puzza Depeche Mode lontano un chilometro), ma furbescamente di mestiere.
Nel 2006 la carriera solista di Liv praticamente ricomincia da capo, sotto la guida ferrea di Herr Krull, con “Enter My Religion”, disco gradevolissimo, elegante, vaporoso, solare, frizzantello. Questa rimane la cifra pure dei successivi “Skintight” (’10) e “Libertine” (’12), sempre più civettuoli e minettiani (“Paris Paris”, dall’ultimo, è qualcosa che raggiunge dei livelli di lolitismo da deflagrazione inguinale).
Krull insomma è un affermato “professionista” del metal, nel bene e nel male; segue gli aspetti produttivi, compositivi, manageriali e tecnici che la pubblicazione di un disco, proprio o altrui, comporta. Ha sulle spalle (e sulla panza, pure quella cresciuta a dismisura, da bravo tetesco trinkatore ti pirra) lustri e lustri di esperienza nel music biz, e dà l’impressione di creare materiale dal nulla senza la minima fatica.
Gli Atrocity rimangono un punto di riferimento imprescindibile e fondamentale per considerare lo sviluppo dell’heavy metal degli ultimi 20 anni e, per quanto mi riguarda, tolto il secondo “Werk 80”, di dischi veramente debolucci o scadenti non ne hanno mai pubblicati. Però è innegabile che la bussola l’abbiano un po’ persa, le idee siano molte meno, tant’è che, pigramente, hanno preso a rifrullare le stesse. La line-up storica si è sgretolata, e con lei molta della magia dei migliori dischi della band, l’aspetto commerciale e produttivo sembra aver preso il sopravvento su quello meramente autoriale e compositivo, ovvero la parte più schietta e genuina del far musica.
Un posto al sole la band comunque lo merita, poiché per tutti gli anni 90 i dischi pubblicati dagli Atrocity non hanno pietre di paragone e, a tutt’oggi, trovare band che possano competere con quelle release è sostanzialmente una battaglia persa in partenza. Discorso diverso per i Leaves’ Eyes, partiti bene e manierizzatisi a livelli esponenziali col procedere della carriera. Già l’abuso degli EP (5, contro 4 full-lenght effettivi, oltre ovviamente all’immancabile DVD) fa sorgere qualche malumore. Il debut “Lovelorn” (’04) si caratterizzava per una forte connotazione gothic, che si sposava perfettamente con la silhouette artistica (e non solo) di Liv Kristine. Il concept lirico, estetico e visuale della band ha poi preso una piega marcatamente vichinga, tingendosi quindi in prevalenza di sonorità folk/power metal (e solo occasionalmente gothic). E se da un lato strettamente produttivo i vari “Vinland Saga” (’05), “Njord” (’09) e “Meredead” (’11) sono lavori praticamente perfetti, privi della benché minima defiance, a livello di songwriting presentano vuoti crescenti e qualche barocchismo di troppo. Si potrebbe parlare di exploitation di rune, drakkar e martelli da guerra. A tutt’oggi comunque “Into Your Light” rimane una delle canzoni più seducenti e sessualmente ingrifanti che orecchio umano abbia mai sentito.
Concludo questo dilagante excursus in quattro parti con un accenno all’aspetto live della/e band; ho avuto la fortuna di assistere ad una loro performance on stage nel 2005, in occasione del Badia Rocks Open Air Festival, doppia farcitura Atrocity e Leaves’ Eyes (ancora c’erano sia Lukhaup che Röderer). Signori, se non il miglior concerto a cui abbia assistito in vita mia, in assoluto uno dei migliori. Una macchina da guerra di una precisione disarmante, pareva di sentire il disco in studio, solo che invece la band era sul palco, a pochi metri dal mio naso, e l’amplificazione era 100 volte quella di casa mia. Qualcosa di veramente immenso. C’è poco da fare, per quanto si scavi, di magagne agli Atrocity se ne trovano davvero poche. Da una band del genere puoi aspettarti qualsiasi cosa, come si dice di un Pirlo o di un Cassano, magari possono sembrare imbolsiti, spenti e sonnecchianti a centrocampo, si trascinano stanchi, ma poi arriva la zampata felina, e tu manco l’hai vista partire.
Sommessamente mi sento di dire che il grosso sbaglio commesso da chi ha faticato e fatica tutt’ora a comprendere gli Atrocity, è ritenerli una band death metal che poi ha fatto altro (e quindi, ritrovarsi ad avere problemi con quel “altro”). Anche quando hanno pubblicato album catalogabili nel filone death metal, gli Atrocity li hanno sempre riempiti di molto materiale eterogeneo, input esterni all’ambito death; hanno sempre avuto uno sguardo, una prospettiva che mirava oltre, e il loro percorso artistico è stato una coerente evoluzione della loro natura cangiante. Gli Atrocity si sono sempre posti con una mentalità più che aperta di fronte a qualsiasi novità. Riprendere ad esaltare la band solo in occasione delle componenti death metal ricomparse nei recenti “Atlantis” e “Okkult” è un po’ miope perché non tiene conto della molteplicità di aspetti che ha segnato l’anima più profonda di questa band. Mi auguro vivamente che neppure Krull se ne dimentichi negli anni a venire.