A PROPOSITO DI BORIS!

  In questo preciso istante, che nell’arco della tua/vostra lettura sarà solo un fotogramma rimasto fermo nel tempo, m’accingo a concludere l’ascolto di Vein (2006).

Di quest’album ne sono uscite due versioni: una drone e una hardcore; io ho optato per la prima. Nella mia classificazione questo è il loro quinto lavoro della loro mastodontica discografia. Il nome d’un gruppo racchiude più di mille segreti, tipo come quando vidi il live/documentario dei Watainconvinto che il loro nome derivasse dall’omonimo pezzo dei Voninvece racchiude più d’un mistero esoterico colmo di simbolismi. Loro, i Boris, traggono il proprio nome non dall’omonima serie di quel fallito di Francesco Pannofino,  

ma dall’omonimo pezzo dei Melvins di Bullhead, album dedicato al futuro rincoglionimento dei doppiatori italiani che si sono riscoperti pessimi attori. Scusate lo sclero, ma il tizio di sopra mi sta proprio sulla punta del ca-.  

ma dall’omonimo pezzo dei Melvins di Bullhead, album dedicato al futuro rincoglionimento dei doppiatori italiani che si sono riscoperti pessimi attori. Scusate lo sclero, ma il tizio di sopra mi sta proprio sulla punta del ca-.

Luogo di provenienza? Giappone ovviamente. Probabilmente tornerò a parlare di loro in altra sede, ma concedetemi uno sclero di qualche minuto su di un gruppo enigmatico come questi. Spero voi non ne siate mai venuti a conoscenza altrimenti il mio lavoro d’oggi può semplicemente andare alle alici. Partiti come un gruppo di quattro membri nel 1992, finché quattro anni dopo Nagata(batteria) abbandonò. Il trio, rimasto identico fino a oggi (Takeshi Ohtani, Atsuo Mizuno, Wata) si lancia nel mondo della musica con il primo lavoro ormai divenuto leggenda: Absolutego (1996).  

  Prima che lo diciate: sì Wata, la chitarrista, è una lei e tralasciando il classico maschilismo che permea il mondo del metallo è anche piuttosto brava, altrimenti non si spiegherebbe il loro successo e poi si ritornerebbe al teorema dei Six Feet Under che puoi anche fare schifo ma le bollette riesci sempre a pagarle. Pietra miliare del drone/doom metal, un’unica traccia di un’ora e cinque minuti. Solo i più coraggiosi hanno saputo intraprendere questo viaggio e ancora meno sono tornati per raccontarlo. C’è chi dice si sia perso in quelle sue vie schiacciato dai droni che forse solo i Khanate hanno saputo rendere alla pari, seppur quest’ultimi secondo me seguano più una via che definisco ‘drone da strada’ mentre i Boris sono più ‘per palati ricercati’. Successo è stato e neanche due anni dopo tornano con Amplifier Worship (1998).

  Non nominatelo in mia presenza, ancora oggi ho gli incubi. Quando avevo la febbre a 40° e deliravo come a un dannato posseduto da cristo, chiudevo gli occhi ascoltando il succitato album; arrivato a Kurumizu partiva il viaggio. Mostri di gomma che si contorcevano nella mia mente in macabre orge di sangue mentre io seduto sotto al palco non potevo fare a meno di masturbarmi (mentalmente). Se Flood(2000)

fu un viaggio nella musica minimalista, un paragone come andare al ristorante cinese e assaggiare per la prima volta gli involtini primavera e chiederti come hai fatto a vivere fino a quel giorni senza, 

Heavy Rock(2002) mi deluse un po’. Non rivanghiamo il solito discorso che noi metallari siamo incontentabili e che se un gruppo fa sempre la stessa cosa ci lamentiamo e se cambia c’incazziamo, ma questo cambio improvviso… Mica l’avevano annunciato, mica ti hanno fatto un black album che ti stava avvisando che oggi avrebbero fatto stoner rock. Bello è bello, qualità è qualità, però io ne rimasi amareggiato, come quando provi un alcolico nuovo ignaro del suo sapore amarognolo che ti rimarrà nella gola tutta la sera chiedendoti se sia giusto criticarlo o forse non eri ancora pronto ad assaporarlo. E poi noise con Merzbow, sledge, ambient.  

  Ogni volta se ne uscivano con un’idea nuova che non riesco neanche a spiegare; in un momento ho creduto che ogni volta non fosse il genere a cambiare, ma semplicemente stessi ascoltando un gruppo diverso. No, il tocco indistinguibile di Wata è sempre quello; la sua distorsione è magica. Potrei ascoltare mille chitarristi, ma il suo suono lo distinguerei sempre, è unico. E i Boris sono magia! Non ho ancora fatto la pazzia, ascoltare i due cd di Dronevil – Final – 


in contemporanea su due amplificatori, ma mi sono risparmiato l’ascolto di Attention Please (2011).

  Non dico che non abbiano mai fatto passi falsi, ma saltare d’improvviso al pop è una cosa che neanche nei miei sogni più torbidi avrei potuto immaginare aggiungendo che mi ha fatto non dico schifo, ma ho cliccato il tasto stop appena partita la voce, quindi come potrei definire l’effetto che mi ha fatto? Duemilatredici, dopo un anno d’assenza dalle scene sono usciti con il nuovo Präparat,

un ritorno al drone. A seguire ascolteremo o forse riascolteremo The Thing Which Solomon Overlookede Vein. Versione rimasterizzata o forse ancora nuovi album che traggono solo il nome dal passato? Con Boris non si sa mai cosa potrà accadere ma qualcosa accadrà sempre.