LA STORIA DEI LOUDNESS – PRIMA E ULTIMA PARTE

Questa è la prima e per quanto mi riguarda ultima parte della storia dei Loudness. Dico così perché il mio interesse verso la band di Osaka non va oltre il 1991. Tutto quello che è successo dopo l’ho vissuto talmente male che non ci rimetterei piede per nulla al mondo. I Loudness sono giapponesi e fin qui credo sia una cosa indiscutibile. Non hanno mai inventato nulla, musicalmente parlando. Per tutti gli anni 80 si sono limitati a sfornare del classico metal all’americana, ricalcando talvolta in modo quasi plagiatorio le idee di band come i Dokken, Lizzy Borden, Twisted Sister, Motley Crue eccetera. Con una spruzzatina di Rush, a dirla tutta. Il tutto condito da quell’accentone giappo che qualcuno considererà ridicolo d’accordo, ma che per me ha sempre rappresentato l’ingrediente irrinunciabile. 
 
 
Dicevo che pur non inventando nulla, i Loudness hanno mantenuto un livello qualitativo sempre alto, sfornando dischi power/hair sfiziosi e molto divertenti che ancora oggi si riascoltano con grande piacere, specie dopo tre o quattro Scotch Ale o come cavolo si scrive. All’inizio cantavano in giapponese e vi assicuro che rispetto a quando passarono all’inglese, non è che la differenza si sia notata poi molto. Ci sono alcuni dischi pubblicati in tutte e due le lingue, a volte con lo stesso titolo, a volte con titoli diversi, ma in fondo cambia davvero poco perché la pronuncia di Minoru Niihara era pessima e quando finiva la strofa e si lasciava in un bell’urlo prolungato, invece di scegliere la aaaaaaaah, come fanno tutti gli occidentali, sceglieva la uuuuuuh e questo mandava in vacca praticamente tutto quanto. “In My Dreeeeeuuuuuums, I Wasuuu Turninuuung tu stooouuuun! Quando invece una parola finiva con una consonante, tipo mettiamo “sword”, anziché prolungare la vocale, prolungava la consonante. “Swordddddddddd!” Era uno spasso, credetemi e la cosa in sé non mi impediva di godermi le canzoni, che davano una bella pista a tanti emuli europei del metallo radiofonico ammeregano.
I primi dischi (The Birthday Eve, Devil Soldier) sono quelli più esotici, non tanto per la lingua, quanto per l’uso di cori, melodie e combinazioni armoniche molto ancorate alla tradizione giapponese. 
 
 
Il terzo album in particolare, “The Law Of Devil’s Island”, presenta alcuni dei riff più cazzuti della loro intera produzione e una scrittura selvaggia, sperimentale e quasi progressiva. Secondo alcuni questi sono i migliori Loudness ma io non direi. Sì, c’è la ruvidezza e la violenza della NWOBHM ma con un livello tecnico inarrivabile per la maggior parte di quelle band, se escludiamo gli Angel Witch. Ci sono i Priest mescolati con la solennità tronfia degli Accept. “Black Wall” sembra un pezzo dei primissimi Queensryche e “Mr Yes Man” è un riff che mi ha spinto più volte a imprecare contro la volta del cielo per quanto è bello. Ho una storia particolare con questo riff ma ve la racconterò solo dopo che avrete mandato i bambini a letto.
“Thunder In The East” è l’album pubblicato con la Atlantic e quello dove la band tenta di terrorizzare l’occidente. Ascoltarlo oggi trasmette una certa spensieratezza che avete abbandonato nei giardini del dopo scuola, ma che vi devo fare, ognuno ha le sue perversioni e quando faccio suonare “Crazy Night”…
“You! kam to see the sciooo”
Well We’re gonna Rack and rolluuuuu”
ebbene io mi arrapo, sento percorrermi una carica elettrica dall’ano al pomo di Adamo e mi si arricciano tutti i peli… uno schifo, proprio, e sono pronto a inseguire qualche pollo di mio padre, nell’aia, proprio come ai vecchi tempi.
Minoru Niihara aveva una gran voce, una via di mezzo tra Blackie Lawless, Geddy Lee e Marrabbio di Kiss Me Licia. Il livello tecnico di Akira Takasaki era straordinario. Quell’uomo secchioneggiava (o riccardoneggiava, se preferite) tra tapping, sweep, scale a salire e scendere sul neoclassico, jazz… era una specie di frullatore di tutto quello che il metal occidentale aveva prodotto negli ultimi cinque o sei anni. Rifaceva Van Halen e Ingue Malmistiiiin, Tipton e Downing (tutti e due insieme) Randy Rhoads, Ross The Boss e Neil Schon. Tirava fuori riff alla Dokken, alla Journey, alla chi vi pare e venivano fuori cose che almeno a me facevano dire: “cazzo, a Van Halen questo sarebbe piaciuto. Oppure, Randy questo l’avrebbe gradito parecchio”. E poi c’era uno spirito melodico così sguaiato, quasi partenopeo.

“Lightning Strikes” e…
 
 
“Hurricane Eyes” continuano il discorso dei precedenti album: musica usa e getta di gran qualità e con una sorprendente mancanza di idee. Adesso qualcuno alzerà il culo per qualche secondo dalla sua sedia per dirmi che sono una merda e che i Loudness uno stile ce l’avevano eccome. No. Il loro non era stile, ma solo giapponesaggine. Si sentiva che erano del Sol Levante e che facevano metal in modo entusiasmato e rispettoso. Non cercavano di fuggire dalla loro cultura. Facevano solo la musica che più riusciva a far impazzire la loro gente e copiavano lo stile, la grammatica, le combinazioni, senza voler discutere nulla, solo ammettere amore e ammirazione per questa musica fichissima che facevano in America ed Europa.
Poi però successe qualcosa. Cacciarono il cantante e presero un americano. 
 
che poi tanta fortune non mi sembra, visto che stanno per farlo fuori…
“Soldier Of Fortune” è uno dei miei dischi class metal preferiti, lo conosco talmente bene che potrei raccontarvelo nota per nota prima di mettervi a letto, ma tutta la giapponesità dei Loudness va a farsi fottere e trasforma una band esotica (nonostante tutto) in qualcosa di omologato: non si distinguevano più dalla marmaglia di band che nel 1991 volevano offrire al pubblico una musica che il pubblico aveva sui coglioni da almeno due anni. Evidentemente gli andò bene. Tanti si accorsero di loro solo dopo che si erano procurati quel cantante biondo e possente, Mike Vescera, talmente Malmsteeniano che el gordo Ingve lo prese a cantare in due dischi: “The Seventh Sign” e Magnum Opus e lo usò anche come scaldaletto per la mogliettina, se non vado errato (vero Emanuele Biani, tu vedesti tutto, no?).  Insomma, “On The Prowl”, 
disco che riprendeva vecchie canzoni dei primi lavori e le faceva cantare a Vescera, chiude la fase più rappresentativa e rispettabile dei Loudness. Dall’omonimo “Loudness” del 1992 la band si trasformò in quello che il metal americano era già diventato da un po’ di tempo. Prima fecero un disco quasi nu thrash, poi divennero roots, passarono all’alternative, il nu metal e tre o quattro anni fa probabilmente facevano metalcore.


cioé, dai…
Takasaki ha continuato a licenziare dischi indigeribili, mantenendo il nome Loudness ma perdendo oltre al pubblico anche la forma fisica e i capelli, forse per emulare i suoi due grandi idoli: Malmsteen e Andrea Braido. Oggi poi, vanno così tanto i revivalismi che di sicuro la formazione degli anni 80 sarà tornata insieme per un tour e un nuovo disco e magari il nuovo disco suonerà come l’ultimo degli En Forcer, ma preferisco evitare di pensarci. Che poi in tutto questo bisogna riconoscere la loro coerenza. Dagli esordi true metal tipo Accept o Priest, poi hair alla Dokken o Bon Jovi, erano solo ultracorpi che cambiavano forma per sopravvivere in condizioni commerciali sempre diverse. E hanno continuato a essere questo: quando in classifica sono arrivati i Korn e i Deftones loro hanno messo le treccine colorate e abbassato le chitarre di quattro toni. Se ci suicidassimo tutti, qui in occidente, anche i Loudness si ammazzerebbero. (fine prima e ultima parte)