Hanno voluto scrivere il loro “black album”, ovviamente senza riuscirci, sfiorando il ridicolo e il plagio legale ma in fondo divertendoci come una band di rock and roll dovrebbe sempre riuscire a fare. Il nuovo lavoro degli Avenged Sevenfold forse è solo l’ennesimo passaggio nello smaltimento di un lungo trauma nato con la perdita di The Rev, batterista e componente fondamentale del gruppo nonché amico fraterno di M. Shadow, Synyster Gates e gli altri vampiri tatuati di Huntington Beach, California.
Inevitabile quindi non badare alle ritmiche, pensando che se in “Nightmare” l’ingresso all’ultimo momento di Portnoy fu il vero valore aggiunto di quel grande album, in questo caso la batteria è vero punto debole, l’ingrediente stantìo, insoddisfacente. I brani sono rilassati, lineari, senza sorprese, quello che si sente nei primi cinquanta secondo è quello che avverrà fino alla fine dei cinque, sei o addirittura sette minuti delle canzoni, ma il pischello Arin Ileay sembra limitarsi da gregario cinico o sottomesso a battere il tempo con un quattro quarti senza fronzoli e fantasia in stile Scott Columbus. Stavolta gli Avenged saranno carne da macello per la fitta schiera di detrattori che non li hanno mai sopportati ma che sono stati costretti ad ammetterne la bravura, l’originalità, lo stile. Quello non si è perso, è vero, ma sebbene si riconosca subito che sono sempre loro, inconfondibili, il resto manca in modo clamoroso. Questo “Hail To The King” è simpatico ma senza mai colpire sul serio al cuore dell’ascoltatore e tanto meno alle palle. “Doing Time” e “This Means War” poi sono dei poco furbi o se vogliamo sfrontatissimi scopiazzamenti di “It’s So Easy” dei Guns e “Sad But True” dei Metallica. Neanche i Gamma Ray si erano spinti a tanto e almeno di questo bisogna dare atto ai Sevenfold.
Avvertenza: ascoltare a piccole dose, un uso prolungato può causare dipendenza, vero Bianì?
mi rifiuto di commentare questa copertina! |