SURGICAL STEEL! RECENSIONE MULTIPLA E INTERVISTA A BILL STEER!

Bisogna analizzare il ritorno di Walker e Steer nella giusta prospettiva. È un disco death metal? Sbagliato. Per la verità è un disco reunion. E come tale è superbo. Spazza via la maggior parte dei “ritorni” avvenuti negli ultimi dieci anni. È potente, a tratti esaltante e costituisce la migliore introduzione possibile alla storia dei Carcass per le nuove generazioni, cosa che un disco reunion in fondo può solo essere.

La band, a partire da “Reek Of Putrefaction” fino al tanto bistrattato “Swansong” fece un percorso di crescita che la portò dalla bufera sonora degli inizi a una elegante combinazione di death e class metal, dalla furia alla leggiadria, dall’ottusa violenza antropofaga alla poesia decadente e algida di un corpo senza vita lasciato a marcire su un tavolo operatorio. In un certo senso sembrava una parabola completa, con un inizio un centro e una conclusione e anche se i Carcass ci mancavano, sentivamo che un loro ritorno sarebbe stato inimmaginabile. Poi ecco la notizia e io ero già in prima fila a far polemica, disprezzare l’ennesimo ritorno eccetera eccetera. Poi però nel corso dei mesi che ho passato ad aspettare questo nuovo “Surgical Steel” ne ho sentite talmente tante contro Steer e Walker da finire per difenderli e parteggiare per loro. Dopo l’ascolto del primo singolo “Captive Bolt Pistol” la mia simpatia teorica si è trasformata in un discreto entusiasmo viscerale per la band. E adesso che riascolto per l’ennesima volta il disco nuovo mi lascio travolgere dalle melodie, dai riff, dalla potenza e dalla nostalgia. Manca Ammott e si sente. Con lui il nuovo lavoro sarebbe stato ancora più arioso, spesso, robusto. Di sicuro però il disco non avrebbe aggiunto nulla. È un album che riprende le vecchie cose, le mescola insieme e ne tira fuori il meglio possibile ma se dovessimo dire cosa sono oggi i Carcass, a parte un duo orgoglioso del proprio passato, non saprei proprio. E non vuole essere una critica ma una semplice, inevitabile constatazione. L’album è quanto di meglio un vecchio fan potesse aspettarsi ma anche la pastura ideale per tutti i blog che campano di polemica preventiva (e ancora prima di sentire il disco già avevano pronta una stroncatura da buttare in rete). È fisiologico, non si può recuperare una vecchia relazione finita male senza sprofondare nella sicurezza dei bei ricordi. Per guardare avanti c’è tempo ed è quello che spero. Ora che sono tornati desidero che continuino a far dischi, perché una cosa “Surgical Steel” mi ha fatto comprendere: ho ancora bisogno dei Carcass nella mia vita. Ho bisogno di pensare a come sarà il nuovo album, di contare i giorni che mancano alla sua uscita e di sperare che possano davvero scrivere ancora dischi geniali e spiazzanti come in passato. In sintesi, ho bisogno di loro, vivi, al mio fianco, mentre ogni giorno imputridisco sempre di più.
(Francesco Ceccamea)


Mi avessero chiesto di recensirlo dopo un solo approssimativo ascolto, l’avrei bocciato con un misero quattro e aggiungendo pure: non solo è noioso, ma non è neanche degno d’apparire nella mitica discografia dei Carcass. “Surgical Steel”. 
Chiuso il progetto dopo quel “Swansong” che mi ostino a non ascoltare per non capisco quale fobia, i Carcass erano ormai defunti. Ken Owen è stato declassato a mascotte del gruppo dopo un’emorragia cerebrale che l’ha tenuto più in cielo che in terra. Amott è preso a tempo pieno dagli Arch Enemy. Cosa è rimasto del passato? Due energici Jeff Walker e Bill Steer che decidono nel 2007 di riformare la carcassa tarpando le fantasie erotiche del fan più accanito con un semplice ‘non rilasceremo nuovo materiale’. Si sa le bugie hanno le gambe corte e le bollette non si pagano con i buoni propositi. Siamo nel 2013 e a scapito di qualsiasi profezia, i Carcass tornano con una formazione ‘a metà’ per ricordare ai metallari perché tutti devono qualcosa a “Heatwork”. I tempi di “Reek Of Putrefaction” e “Symphonies of The Sickness” sono belli che morti. Schegge impazzite volate via dalla mente creativa di Jeff in un tripudio di violenza inumana rimaste incastonate in quegli anni. “1985”, la prima traccia, l’intro che fa da cancello d’apertura all’album è niente poco di meno che l’inizio dell’avventura Carcass. Quando lessi il titolo dell’album pensai ‘cavolo, questi si sono dati ai Manowar. Surgical Steel: l’epic/goregrind’. Ci ho messo non so quanti ascolti per assimilare che questo è solo un omaggio a loro stessi e che nessuno potrebbe mai permetterselo, a meno di non essere additato come un venduto. Io l’ho fatto, il mio dito ne è la prova. “Thrasher’s Abattoir” ci spazza via in un istante con un calcio dritto alla gengiva. Jeff urla e si raschia le corde vocali. Un giovane mai invecchiato. Basta questo per macchiare di sangue l’album. Abbastanza da far piangere il fan accanito, ma non al punto da credere di essere veramente tornati alle origini. Il coro s’infilerà nel nostro lessico quotidiano. TIME TO DIE/DIE IN PAIN. Da qui in poi è un omaggio continuo a “Heatwork” e l’heavy metal anni 80. C’è voluto tempo per capire che questo è un album dei Carcass, poco osante e trattenuto, ma sempre e comunque loro. Ritmiche pressanti, senza mai dimenticare la melodia come elemento cruciale. Continuare a parlare dei pezzi sarebbe inutile: Cadaver Pouch Conveyor System è la prima consacrazione degli assoli di Steer. A Congealed Clot of Blood e The Master Butcher’s Apron saranno un esercizio fisico per il collo. Impossibile non lanciarsi in un forsennato headbanging spacca ossa. Un reale disco da palestra per chi vuole pomparsi i muscoli fino allo sfinimento. 
Ciò che avevano intenzione di dirci l’hanno fatto, lasciando la conclusione di questo racconto a “Mount Of Execution”, otto minuti suddivisi in punti salienti: una partenza lasciata a un arpeggio, inizia la corsa come un cavallo al quale hanno colpito i fianchi con ferri roventi. L’assolo nel centro è l’addio di Steer, vero protagonista di tutto il racconto. Strizza più l’occhio al metal classico che al death metal di “Heatwork”. Walker come sempre si raschia la gola come faceva da ragazzino senza risentire degli anni. Silenzio improvviso. Esplosione finale. Non ho ancora parlato della bravura della nuova leva dietro le pelli: Daniel Wilding. Non è Ken Owen e questo basta a farvi capire tutto. Forse parlo troppo da fan accanito, di quelli convinti che senza Ken i Carcass non hanno niente da dire. Lui è uno dei simboli, Il mio mito e sapere che a parte qualche coro non può, giustamente, partecipare in altro modo all’album mi fa piangere amare lacrime di sangue. La sua ombra incide su Daniel e nessuno in fase di recensione vi parlerà con coraggio della batteria, perché hanno paura d’incorrere nel fantasma dell’ovvio. Il nostro però prende la palla al balzo e tira fuori il meglio di se stesso. Ora però vi faccio una domanda: volete un “Reek…” o un “Symphonies…”? Cambiate strada e buttatevi sul goregrind russo magari. Siete tra i fan di “Necroticism…” e “Heatwork”? Bene, ma ascoltatelo solo se siete preparati ad accettare che quello è il passato e questo è il presente. I Carcass, come il vino buono, non sono diventati aceto, ma hanno accentuato il gusto. Forse è ancora presto per definire questa bottiglia ‘matura’. Il ritorno c’è stato, ora aspettiamo la riconsacrazione.
(Ruggiero Musciagna)

 “Azzo!”… è stato uno dei commenti più originali visti online al momento del rilascio in anteprima della traccia “Captive Bolt Pistol”. Eh già, perché il ritorno dei Carcass dopo 17 anni ha creato entusiasmo e timore al contempo, eccitazione per la ricomparsa di una delle band più amate, creative ed influenti del panorama (extreme) metal, e timore perché gli anni trascorsi erano veramente tanti, la reunion coinvolgeva solo 2/4 della band, ed i tempi per questi grindcorers vecchietti non erano più gli stessi, il mondo di oggi è distante anni luce da quello dell’Inghilterra tatcheriana, l’humus che aveva fatto germogliare il marciume dei Carcass. A conti fatti, cosa hanno fatto i Carcass? Hanno trovato un equilibrio quasi perfetto tra nostalgia ed esigenze di rinnovamento (col bilancino che pende più verso la prima delle due istanze). Ignorato a pie’ pari “Swansong”, i nostri hanno ripreso le sonorità di metà carriera (“Necroticism”, Heartwork”), condendole con un po’ di melodia in più, ma sostanzialmente discostandosi il meno possibile da ciò che ogni die hard fan avrebbe voluto sentire su un nuovo album dei suoi redivivi eroi. In sala chirurgica i Carcass hanno certosinamente riprodotto il meglio del proprio sound, quello più evoluto però, senza cedimenti all’era ’88 – ’89. Di “Surgical Steel” si può magari dire che non sia un album particolarmente coraggioso, tuttavia bisogna anche ammettere che è incredibilmente vivo per essere il disco di una band tornata dall’obitorio, e ricco di riff, drum patterns, incroci ritmici e dinamiche interne. Si sente insomma che il gruppo ci ha lavorato con passione e dedizione, cercando di tirare fuori il meglio dalle proprie “crape” invecchiate. Credetemi, per essere un comeback album così carico di aspettative e pressioni dall’esterno, poteva riuscire moooolto peggio (e in giro di esempi ne abbiamo). Altrettanto vero, poteva osare di più, dopotutto i Carcass si sono contraddistinti per una carriera all’insegna della progressione continua, e “Surgical Steel” più che progredire, mette i puntini sulle “i “. Inteso come un nuovo inizio, il riscaldare i motori prima di una ripartenza, togliersi la ruggine di dosso, può anche starci, se i fans vorranno sufficientemente bene alla band (leggi: generosi dati di vendita) magari avremo un nuovo capitolo a firma Carcass che tenterà di spingersi oltre, come è fisiologico per questa band. E rimango anche convinto che l’assenza di Amott sia stata una benedizione, avesse partecipato anche lui alla reunion avrebbe finito per contaminare il songwriting con tutte le sue trovate “fighette” e magari avrebbe preteso anche che Miss Culetto d’Oro partecipasse alle back vocals. (Marco Benbow)
 
 
E dopo i nostri tediosi sfoghi più da fan che da recensori, eccoci all’intervista, realizzata grazie alla stretta collaborazione tra Stereo Invaders e Sdangher. Bill Steer ha reclamato il nostro povero Marco Principe con un’ora di anticipo, beccandolo mentre stava pulendo l’insalata. Si è fiondato davanti al pc vestito da massaia e l’ha tempestato di domande, vocabolarietto inglese italiano alla mano. Non sappiamo cosa Bill abbia capito ma è stato molto cortese nel rispondergli comunque. Marco ha detto che è apparso piuttosto rilassato, felice del nuovo disco in uscita e per nulla provato dalle decine di interviste delle ore precedenti al nostro incontro. Ma non perdiamo altro tempo, signori e signore e molfette: Bill Steer!
 
 
– Ciao, grazie per l’opportunità concessaci con questa intervista. I Carcass tornano ufficialmente in pista a 17 anni dal vostro ultimo studio album, immagino l’adrenalina di queste ultime settimane che vi separano dalla release date ufficiale del disco. Come state vivendo questi giorni?
 
E’ un periodo davvero pieno d’impegni questo i concerti si susseguono uno dopo l’altro rapidamente. Di recente abbiamo fatto un po di festivals e nel frattempo un sacco di interviste per la stampa oltre ovviamente a provare costantemente e ad essere sincero non so dove tutto questo tempo sta andando a finire ma avere sempre qualcosa da fare è estremamente positivo e lo preferisco.
 
– Domanda d’obbligo, prima di tutte le altre: come sta Ken Owen, è stato possibile coinvolgerlo in qualche forma in questo disco?
 
Certo! Ha fatto molte backing vocals. Ovviamente la gente è al corrente delle sue condizioni e che non sarà più capace di suonare la batteria a quel modo ma noi volevamo la sua presenza sul nuovo album e sapevamo che sarebbe stato capace di fare le backing vocals dato che ancora riesce a urlare come faceva nei dischi precedenti. E’ stato davvero molto divertente e ancor prima di dare il via alla versione definitiva del nuovo album lo abbiamo ascoltato e riascoltato insieme così che Ken fosse sicuro del risultato finale. Ken ci ha sempre supportati moltissimo fin dall’inizio e mi ha sempre dato dei consigli riguardo a un eventuale ritorno sulle scene ancor prima che questo venisse pianificato e per noi la sua approvazione è stata cruciale. E’ sempre stato estremamente entusiasta in particolare sulle parti di batteria.
 
 
– Amott ha declinato la reunion per i propri impegni discografici. Col senno di poi, e soprattutto dopo aver ascoltato “Surgical Steel”, non credi che questo sia stato più un bene che un male? Come musicista oramai mi pare proiettato verso sonorità inconciliabili con i Carcass, difficilmente si sarebbe potuto trovare l’amalgama. O potrebbe addirittura riavvicinarsi alla band in futuro, laddove i suoi impegni personali dovessero consentirglielo?
 
A essere onesto non lo so, una delle poche cose che ho imparato in tutti questi anni è quella di non cercare di predire il futuro e che devi stare attento a usare parole come “mai” così come ogni sorta di eufemismi perché lo abbiamo già fatto in passato e ci ha giocato brutti scherzi (risate). Con Michael la situazione è piuttosto controversa perché è vero che se ne è andato dalla band nel 2010 sebbene in modo molto amichevole e dicendo che sarebbe stato molto occupato con gli Arch Enemy per gli anni a venire e che non voleva suonare più nei Carcass quindi non è stato un vero e proprio shock, ce lo aspettavamo e ho capito le sue ragioni totalmente. Lui venne a conoscenza che c’era interesse da parte nostra per un ritorno e che stavamo scrivendo materiale per un nuovo album e che avremmo voluto coinvolgerlo ma a quel punto era già troppo tardi e avevamo già composto tutto il materiale e stavamo iniziando le registrazioni e non ce la sentivamo di tornare indietro inoltre penso che non avrebbe funzionato perché per me e Jeff i Carcass sono la priorità, non c’è niente di più importante per noi di questa band mentre Michael non potrebbe dire la stessa cosa perché lui ha il suo gruppo che lui stesso ha fondato e che per lui è molto più importante. Non lo abbiamo mai condannato perché noi ci sentiamo allo stesso modo riguardo alla nostra band.
 
– Un disco di ritorno dei Carcass era sicuramente un sogno proibito di molti, allo stesso tempo la pressione deve essere stata fortissima. Come avete retto alle aspettative che si sono venute a creare dopo l’annuncio di un vostro ritorno? Che aria tirava in studio di registrazione, avvertivate dello scetticismo per il ritorno della band? 
 
Molti erano convinti che avreste fallito come la maggior parte dei grupponi celebri tornati insieme con dischi scialbi e inutili (…..e si sbagliavano).
Beh quando abbiamo iniziato a scivere il nuovo materiale sembra incredibile ma non abbiamo avuto alcuna pressione, stavamo facendo le cose in modo molto privato nessuno al di fuori di Me, Jeff e Dan era al corrente di ciò che stavamo facendo. Abbiamo avuto il lusso di poter dedicare un sacco di tempo a questo nuovo album, tutto il tempo che abbiamo creduto necessario per completare il lavoro ed eravamo tutti d’accordo che se il nuovo materiale non sarebbe stato soddisfacente e d’impatto, che non sarebbe sembrato un album dei Carcass ne avremmo tranquillamente fatto a meno e che nessuno lo avrebbe mai ascoltato. Siamo arrivati a un punto in cui il flusso creativo si è aperto e sembrava interminabile e da esso sono sgorgate 15 nuove traccie. Credo che tutti noi eravamo elettrizzati e il passo successivo sarebbe stato quello di registrare, ma anche arrivati a quel punto abbiamo deciso di tenere tutto in segreto chiudendoci al mondo esterno infatti qualcosa è iniziato a trapelare dalle news il giorno stesso che abbiamo finito le registrazioni se ben ricordo ed è stato solo allora che abbiamo iniziato a ricevere opinioni e impressioni dall’ esterno e di certo in quei momenti ti devi aspettare molta negatività. Non c’è una lunga lista di bands che tornano dopo un lungo periodo di inattività e propongono qualcosa di realmente valido quindi capisco perfettamente lo scetticismo di alcuni.
 
– Riguardando indietro alla vostra discografia, spendi qualche parola a commento per ogni album:
 
                                   “Reek of Putrefaction”:
 
Come ho già detto molte volte in passato quel disco è ciò che io chiamo un “incidente sonico” non era esattamete ciò che ci eravamo prefissati di ottenere eravamo molto inesperti e non eravamo nemmeno dei grandi musicisti a quel tempo inoltre l’ingegnere del suono non è che avesse preso l’album seriamente. Ci siamo ritrovati con questo disco così strano e incredibilmente brutale, al tempo ne eravamo molto delusi ma a posteriori devo ammettere che ci piace un sacco ha il suo indiscutibile fascino.
 
                              “Symphonies of Sickness”:
 
Quella è stata la prima volta in cui in studio abbiamo ottenuto qualcosa di molto vicino a quello che era il nostro obiettivo e naturalmente è stato il primo album in cui ci siamo avvalsi della collaborazione di Colin Richardson quindi il risultato finale non è certo stata una coincidenza. L’atmosfera era molto positiva e abbiamo passato davvero dei bei momenti ai Waterhouse Studios nello Yorkshire . Credo che la band a quel punto stava facendo dei passi avanti e che sebbene quel materiale fosse ancora molto aggressivo presentava episodi più facilmente memorizzabili se vogliamo e inoltre un suono più chiaro e Ken stava migliorando tantissimo alla batteria considerando che quando registrammo il primo album lui suonava la batteria solo da pochi mesi.
 
                      “Necroticism – Descanting the Insalubrious”:
 
Con ogni probabilità la cosa più ambiziosa che abbiamo mai fatto. Volevamo portare la band ai limiti estremi delle nostre abilità di musicisti inoltre in quel periodo stavano spuntando fuori migliaia di bands che cercavano di riproporre quello che avevamo fatto nei primi due albums e la cosa ci ha portato a cercare una nuova direzione dato che volevamo prendere le distanze da quella roba, non volevamo esserne risucchiati piuttosto cercavamo di stare sempre in cima e a distanza da tutto ciò che ci circondava e come è naturale abbiamo fato incazzare molta gente facendo uscire un album diverso da quello che in molti si aspettavano mentre dall’altro lato molta gente iniziava a preferire la nuova direzione presa dalla band. Dalla nostra prospettiva non volevamo rendere la nostra musica stagnante, stare fermi sullo stesso stile fare albums tutti uguali.
 
                                           “Heartwork”:
 
Heartwork è sempre stato il mio preferito perchè non mi sono mai sentito così pienamente soddisfatto di un disco come con quello. Certo forse alcune parti di chitarra a lungo andare potrebbero sembrare a tratti naive (parlo per me) ma il risultato finale rispecchia alla perfezione come mi sentivo e in che modo volevo suonare coi Carcass e tutti noi a dire il vero eravamo di questo avviso inoltre a livello di produzione credo sia ancora il migliore. Ricordo che quando ricevemmo la tape rimanemmo senza parole per quanto spaccava. Penso che quello sia stato il periodo più creativamente fertile dei Carcass in cui ognuno di noi stava trovando la sua dimensione e di conseguenza una marea di idee strabilianti si alternavano incessantemente. Con quel disco siamo andati dritti alla giugulare mentre con il precedente non riuscivi ad apprezare appieno i tecnicismi con Heartwork grazie anche alla produzione siamo riusciti a portare in giro per i clubs qualcosa di si aggressivo ma allo stesso tempo più accessibile.
 
                                             “Swansong”:
 
Swansong ha sempre avuto una strana aura addosso anche dovuta al fatto che ci siamo sciolti ancor prima che venisse pubblicato, se ben ricordo uscì addirittura l’anno dopo lo scioglimento che avvenne nel’95. Non sembra affatto il lavoro di una band dall’inizio alla fine, persino la tracklist fu decisa da Jeff perché a quello stadio non c’era più una band né c’era comunicazione fra di noi. Ci separammo subito dopo le registrazioni e a Jeff fu lasciato il compito difficile di scegliere cosa mettere sul disco. Però col tempo questo lavoro si è ritagliato un seguito tutto suo, per molti è ancora il miglior disco dei Carcass e questo è bello perché ci abbiamo messo sangue, sudore e lacrime in quei pezzi sebbene a mio parere non ci sia coesione fra i brani. Ci sono dei buoni momenti e pezzi che proprio non mi piacciono affatto.
 
– In particolare, per quanto riguarda “Swansong”, fu un album che vi portò molto in là per quanto riguarda le “tipiche” sonorità Carcass, c’è chi si affrettò a definirlo un disco di “classic metal”, chi un po’ provocatoriamente il “miglior album di power metal” uscito nel 1996 …. come arrivaste a quel tipo di songwriting? Che ricordi hai di quel periodo? Nel vostro nuovo disco ci è parso di cogliere anche dei rimandi a “Swansong”, in particolare per quelle improvvise aperture melodiche. Tu che ne pensi?
 
 
Col senno di poi Swansong sicuramente ha il marchio Carcass in quanto ogni nostro album è diverso dal precedente e quindi è coerente e c’è una logica in esso ma penso che molte delle idee che ho apportato a quell’album hanno portato i Carcass a un limite estremo. In quel periodo ascoltavo tantissimo il primo Heavy Metal e addirittura l’Hard Rock che venne prima di esso e quindi il mio modo di suonare ne è stato naturalmente influenzato sebbene io abbia voluto osare ancor di più nella produzione delle chitarre cercando di ottenere un suono più reale e rock. E’ stato qualcosa di diverso, sicuramente divertente da mettere in atto ma al contempo un tipo di approccio sbagliato per i Carcass che ha fatto storcere il naso a molte persone che si aspettavano un sound più potente.
 
– Non ha senso chiedere cosa sarebbe successo se al posto di “Swansong” aveste dato vita a “Surgical Steel”, ma te lo chiediamo lo stesso: cosa sarebbe successo?
 
E’ impossibile a dirsi perché abbiamo creato quest’album nel 2012 e siamo andati in studio a registrarlo in questo perticolare periodo di tempo e credo poteva essere concepito solo adesso. E’ come una nota su un diario che ti dice dove sei in quel particolare momento quindi per tornare alla tua domanda non ci sarebbe mai potuto essere un “Surgical Steel” nel 1996. Inoltre non credo che in quel particolare periodo sarebbe stato considerato un buon album se pensi alla musica che c’era in giro in quegli anni già Swansong non seguiva certo le tendenze del momento se pensi a bands come i Fear Factory o il fiorire di tutto il Nu-Metal che è stata una delle ragioni per cui ci siamo sciolti.
– Questa forse era una domanda più per Jeff Walker, ma ero curioso di sapere cosa non funzionò nei Blackstar?
 
Sicuramente Jeff avrebbe risposto meglio a questa domanda, ma vista dal di fuori quando cambi il nome di una band ( perché parliamoci chiaro il nucleo di quella band era l’ultima line-up dei Carcass…ma per via della loro integrità hanno deciso di non usare quel nome per non risultare ridicoli) poi ti devi aspettare di tornare a suonare in piccoli posti e a un piccolo pubblico perché per giusto o sbagliato che sia un nome nuovo ti porta un certo handicap nel mondo della musica in quanto a farti riconoscere.
 
– Successivamente ai Carcass un po’ tutti avete preso strade che portavano al rock anni ’70, tra progetti roots rock (Firebird), stoner (Spiritual Beggars) e country (Jeff Walker). Questo filo sottile evidentemente vi legava tutti ma non era mai esplicitamente affiorato negli album dei Carcass. E cosa ne sarà dei vostri progetti paralleli adesso, rimarranno tutti in vita?
 
Al momento suono solo in 2 bands c’è stato un periodo in cui suonavo in 4 bands!
 
-Ricordo di averti visto suonare con gli Angel Witch!
 
Si purtroppo non suono più con loro semplicemente perché i Carcass hanno un sacco di impegni al momento e questa è la mia priorità. Suono nei Carcass da quando ero un ragazzino e niente sarà più importante di questa band per me, ma quando se ne presenta l’opportunità mi diverto molto a suonare con altra gente.
 
 
– Esiste una speranza di vedervi passare prossimamente dall’Italia per presentare l’album dal vivo?
 
Certo! Sono sicuro che ce ne sarà l’occasione è sempre stato un grande paese in cui suonare per noi e ci piacerebbe tornare prima possibile. Immagino salterà fuori qualche data sia essa l’apparizione a qualche festival o un paio di shows come headliners nei prossimi mesi. So per certo che saremo in tour in Europa con gli Amon Amarth verso la fine dell’anno, ma non ho ancora visto le date e non posso dirti con certezza se l’Italia è inclusa nel tour.
 
– Il nuovo album è estremamente ricco, complesso e variegato, ci è sembrato di cogliere addirittura degli spunti black n’ roll, per quanto riguarda la mescolanza di groove e sfuriate belluine. Tu che ne dici?
 
Sono contento che tu te ne sia accorto! Credo che ci siano un sacco di elementi diversi come già molte persone hanno notato. Ci sono delle somiglianze con i nostri lavori del passato e se vogliamo è un po’ una versione “suonata bene” della nostra musica. Inoltre ci sono molte idee che vanno al di la del nostro catalogo cose che non abbiamo mai provato prima come Carcass. Guardo a questo nuovo album come alla nostra dichiarazione in termini di ciò che noi vogliamo sentire dai Carcass oggi. Credo che la scena stia diventando una sorta di enorme industria in un modo che io non mi aspettavo e probabilmente non ti sorprenderà sapere che non ci sentiamo di appartenere a quel che va per la maggiore al giorno d’oggi.
 
– “Surgical Steel” è da intendersi come un fatto episodico o la carriera dei Carcass è ripartita a tutti gli effetti e – per quello che è realisticamente possibile prevedere – in futuro seguiranno nuovi album?
 
Quella è sicuramente una possibilità perché se il disco va bene, e per noi e per molta gente sta già andando bene, si verrà a creare della nuova energia e al momento la mentalità della band è quella di essere attivi il più possibile per il prossimo anno e ci piacerebbe poter registrare un altro album. Abbiamo imparato molte cose con “Surgical Steel” e abbiamo ancora tantissime idee quindi la sensazione è quasi quella di un vero e proprio inizio.
 
 
– Sei uno dei chitarristi metal più importanti degli ultimi 30 anni, ti rendi conto che senza di te il death svedese non sarebbe mai venuto fuori con quelle caratteristiche?
 
Questo è molto gentile da parte tua e devo ammettere che non sono in molti a dirmelo. Non so, penso che se guardi alla cronologia degli eventi allora si “Heartwork” è un precursore del fenomeno del death metal melodico svedese, ma non sono sicuro se queste bands ci considerino un’influenza oppure no, non saprei a questo punto cosa aspettarmi. Probabilmente se chiedessi al giovane metallaro medio americano ti risponderebbe che tutto è iniziato con gli At The Gates e gli In Flames, ma immagino si tratti di una cosa soggettiva.
 
– Che ne pensi del nuovo Black Sabbath?
 
Ha ha…a dire il vero ho ascoltato solo una canzone non ho sentito tutto l’album. Non saprei proprio cosa dire in proposito. Una cosa che di sicuro mi irrita è tutta quella gente che sembra essere così infastidita per l’uscita di quest’album addirittura ancor prima di averlo ascoltato. Sono semplicemente incazzati per il solo motivo che i Black Sabbath ancora esistono. Questa mentalità non riesco proprio a digerirla perché qualsiasi cosa questi 4 decidano di fare oggi quello che hanno fatto in passato rimarrà per sempre, quei dischi non moriranno mai e anche se non ti piace il nuovo album il vecchio catalogo dei Black Sabbath sta sempre li a dimostrare la loro grandezza. Immagino che ci sia un certo senso di “possesso” da parte di alcuni fans che credono di sapere cosa è meglio per un artista ma la realtà è che non hanno capito niente.
 
 
– Per anni abbiamo declamato per intero i titoli dei vostri cavalli di battaglia. Adesso, tra le tante, una canzone che ci ha molto impressionato è “Noncompliance To ASTM F 899 12 Standard”, che è impossibile da dire senza portarsi dietro un pezzetto di carta e leggerlo. Che cavolo significa?
 
Ancora una volta dovresti chiedere a Jeff, è lui che scrive i testi. L’unico suggerimento che posso dare ai fans è di ascoltare i pezzi leggendo i testi con attenzione. L’impressione che ho avuto è che lui abbia voluto fare delle considerazione su certi aspetti del metal contemporaneo e in modo molto sottile ha condensato queste idee nelle lyrics di questo brano e trovo che il modo in cui lo ha fatto sia molto ironico.
 
– Perché l’intro si intitola 1985?
 
Perché questa breve traccia è stata scritta proprio nel 1985. Ovviamente andavamo ancora a scuola ma esisteva già una versione embrionale dei Carcass con Ken alle vocals, io alla chitarra e altri due compagni di scuola al basso e alla batteria. Non durò molto sai eravamo giovani e senza nessuna reale direzione in cui andare, ma durante quel periodo registrammo una cassetta delle nostre prove che prese il volo nel giro del circuito dei tape traders e proprio l’anno scorso Jeff venne a conoscenza che ne esisteva una copia online di qualità molto scadente e con tutta probabilità di decima generazione e una volta riascoltato quell’intro ne fu così tanto preso che cercò di convincermi a inserire quel pezzo sull’album. All’inizio ero riluttante, ma una volta trovatomici dentro a suonarlo l’ho improvvisamente amato perché ho pensato a un nuovo modo di concepire un pezzo strumentale, senza batteria e senza basso solo una completa orchestra di chitarre con questa melodia e le armonie e tutta una serie di accordi più simile a una musica per piano che ai soliti accordi standard per chitarra, con quell’apertura che la rende quasi mitologica!
 
– In tutto questo gran giro di interviste promozionali immagino abbiate dovuto rispondere quasi sempre alle stesse domande un’infinità di volte. C’è qualcosa che non ti hanno chiesto e di cui muori invece dalla voglia di parlare?
 
Mmm…questa è proprio una bella domanda! (risate) Wow! Fammici pensare…Si, hai ragione ci sono certe domande molto frequenti e che so già mi verranno chieste centinaia di volte come per esempio se abbiamo avvertito una certa pressione per il nuovo album o come sta Ken ,che è davvero una cosa molto bella perché ovviamente molta gente gli è affezionata e a lui fa molto piacere. C’è però stata un po di confusione con dei giornalisti qua e la per il fatto che alcuni di essi pensavano che Ben il nostro nuovo chitarrista abbia suonato nell’album, ma così non è stato. Non abbiamo usato un secondo chitarrista durante le registrazioni, abbiamo fatto tutto come trio addirittura qualcuno ha avuto l’impressione che Amott abbia suonato nell’album il che è molto divertente (risate). Quindi devi essere preparato al fatto che molta gente non conosce i fatti quando ti intervista però è stato davvero molto interessante ascoltare le opinioni della gente su ciò che hanno sentito in giro e ogni tanto devi aspettarti qualche strana o insolita domanda, ma in ogni caso è divertente.
 
– Grazie per il tempo dedicatoci, ed in bocca al lupo per ogni passo futuro. Un abbraccio speciale a Ken! Saluti da Stereo Invaders webzine.
 
Oh molte grazie a voi è stato un vero piacere, passerò il messaggio a Ken. Magari ci vediamo presto in Italia! Ciao!
 
(Intervista a cura di Stereo Invaders e Sdangher)
Ringraziamo Marco Principe, Stefano Santamaria e Ruggiero Musciagna per aver collaborato all’articolo)