TORNANO I MINISTRY…

io sono un uccelloneeeee dell’infernoooo!
C’era una volta l’apocalisse. Non so se per voi fu lo stesso ma io ricordo che in casa mia, la prima metà degli anni 90 era una specie di preparazione spirituale alla fine del mondo. Band come Ministry o NIN o Rob Zombie per me e mia nonna erano l’ideale finestra su un pianeta alla deriva, ormai perduto in un’orgia elettrocarnale prima che un nuovo diluvio (profetizzato solo da qualche milione di vecchi predicatori monchi e ubriachi del Texas) ci spazzasse via tutti quanti.

La band di Al Jourgensen sembrava essere avanti a noi e da dove si trovava ci descriveva con grande lucidità sia cosa eravamo al cospetto dell’Apocalisse sia cosa fosse il tritatutto gigantesco che avanzava verso di noi. Poi la fine non arrivò, il Millennium Bug fu l’ennesima sola mediatica, i Ministry persero fascino e con loro tutti gli altri: a partire dai NIN per arrivare alle scatole di zuppa avariata Campbell del vecchio zio Rob, signore confuso di Salem.

 
 

La fotografia di due delle più significative band alternative metal degli anni 90 sembra ora solo una polaroid sbiadita che verrebbe voglia di buttare nel secchio e dimenticare. I Ministry di Jourgensen, orfani del genio di Paul Barker, dopo un addio promesso e disdetto, un ritorno stroncato quasi ovunque (“Relapse”), si rimettono subito in corsa con questo “From Beer To Eternity”, che rispetto al precedente album, così buzzurro e incazzato e a tratti ottuso, è più riflessivo, variegato, vecchio stile. Purtroppo sentire i Ministry oggi per me è come vedere i documentari di Hystory Channel sulla profezia Maya. Non riesco più a godermeli, la loro furente e sardonica retorica sull’America bigotta e avida, sul mondo di merda che è sempre più di merda, ormai ha perso lucidità e mordente, come la stessa mente ingrovierata dalle droghe di Al.

 
 

Lui, bolso, gambe rinsecchite, barbone zombie rasta che blatera ancora contro Bush Jr. e il sistema discografico mangia anime, è l’indiscusso re malato di un progetto che rispecchia la sua grassa e claudicante voglia di sfottere. Ce la mette tutta per ricucire la band e farle riguadagnare terreno: sbraita, pesta, insulta, pasticcia, ma alla fine il suo carisma non basta. Dopo l’ascolto del nuovo disco e anche del precendete, resta più la sensazione di una diarrea di riempitivi sparati in faccia allo scopo disperato di coprire una fisiologica mancanza di idee. 

 
sono fico, geniale e ce l’ho io l’uccellone di fuoco, chiaro?
E adesso passiamo a Trent Reznor, che non è da meno. Sempre più in palla con le colonne sonore e dipendente dalle immagini. Dopo anni di silenzio, il ritorno dei NIN ha messo in giro parecchio pepe al culo ma il nuovo album, “Hesitation Marks” è una tonnellata d’acqua sull’incendio di entusiasmo preventivo dei fans, magari illusi di avere sì una copia della copia della copia, ma che fosse quella di “The Downward Spiral”. In futuro qualcuno forse ci aprirà gli occhi, la mente e le ‘recchie e dimostrerà che questo disco è geniale proprio per la sua totale apparente mancanza di genio, ma da ciò che sento in giro sono cadute le braccia anche ai bastiancontrari di professione, quelli che incensano la merda per creare discussione e smerdano l’incenso per creare altra discussione. Insomma il nuovo NIN è una paccottiglia mediocre di rimasugli che Trentretznort, come lo chiama mia moglie, aveva nel cassetto: un truciolato di quello che avanzava dalle sue recenti composizioni filmiche, su cui ha scritto dei testi e confezionato il disco peggiore della band. Nine Inch Nails è ormai un progetto ultra-sperimentale che si pone un solo interrogativo: quanti anni ci vogliano per distruggere il capitale di credibilità maturato in un ventennio di sano, ispirato e stimolante elettro-rock? Scopriamolo su Rieducescional ciannel!   (Francesco Ceccamea)