Fates Warning – La band che inventò i Dream Theater e poi morì di fame (prima parte)

Per chi li conoscesse attraverso uno degli ultimi, sporadici album progressive, sarebbe un po’ sorprendente vederli alle prese con il metallo epico e baldanzoso degli esordi, quando addirittura c’era qualche giornalista (con evidenti problemi etilici) che li definiva i nuovi Iron Maiden. Oggi le cose sono così diverse che la critica più lucida li chiama i “vecchi” Dream Theater e molti fan della band di Portnoy e Petrucci li ha scoperti perché soprattutto il batterista, ai tempi di Images And Words inviava dei complimenti formato bengala in direzione del gruppo di Matheos.

Molti giornalisti si prendevano gioco di loro durante le interviste della metà degli anni 90. Gli chiedevano come mai, in piena esplosione progressive metal, tutti quei discepoli facevano i soldi mentre i FW no, ma lo sappiamo bene il motivo: basta sentirli. I Fates Warning non avrebbero mai potuto raggiungere il successo, né come progressive band, tanto meno nella fase iniziale epic-power. La loro proposta era troppo ostica, particolare. Anche nei rari momenti in cui tentarono di sputtanarsi in modo chiaro e netto non gli riuscì di meglio che rifare il verso a Empire ma senza imbroccare una Silent Lucidity o una Best I Can.

Gli inizi dei Fates Warning non sono granché. Night On Broken (1984) è un prodotto medio, registrato di corsa e creativamente piatto come una linea di basso degli Accept. Le canzoni sono tutte al limite delle possibilità di un gruppo che deve ancora far strada, capire dove investire le proprie energie, di cosa parlare. La cosa più difficile da mandar giù è la prova del cantante John Arch, poveraccio si arrabatta tra linee melodiche contorte, testi infilati dentro a zampate, la palese mancanza di tecnica lo spinge a forzare al massimo ogni emissione vocale, al punto che dopo l’ascolto avrete il fiatone anche voi, cari amici ascoltatori.

Il salto di qualità però è evidente già dal secondo The Spectre Whitin (1985). A parte che c’è un incontestabile miglioramento a livello tecnico (tattico) con gli strumenti ma è la vivacità e l’originalità della scrittura a salvarci tutti, siamo sempre dalle parti del pallosissimo metallo powerallo americano dei primi Queensryche, Helstar e Fifth Angel, ma qui l’ispirazione evita ai FW di venir risucchiati nella voragine del tempo in cui sono sparite quasi tutte le band coeve astellestrisce maidenofile in attività nell’arco cronologico dal 1984 al 1988.

La spettrosità gotica (o la spettrale goticità, fate un po’ vobis) di Epitaph, lo speed cazzuto di Kyrie Eleison e Pirates Of The Underground in fondo non aggiungono molto alla vecchia formula di Stiversi ma in The Spectre… non si tratta del semplice girotondo fatto di cavalcate e melodie celtiche armonizzate. Le linee della voce sono imprevedibili, le strutture già più personali e complesse. In particolare colpisce la tendenza via via più evidente a stoppare e ripartire cambiando tempo, riff e praticamente canzone, come poi anni dopo faranno i gruppi del death metal floridiano.

Le melodie inoltre emozionano, rimangono impresse. Sfido chiunque a restare indifferente alla seconda parte di The Apparition quando la voce dice:

In the first is a young boy white dove in

His hand, in the second is a warrior in armor

In the third is the old man gold watch

In his hand fourth and last

Cazzo, non sentite i brividi lungo le cosce? No? Allora significa che… che siamo diversi.

Ma per quanto The Spectre Whitin sia un disco sopra la media e una piacevole gemma da riscoprire, non è un lavoro imprescindibile della storia del genere, cosa che non si può dire invece per Awakenin The Guardian (1986) che oltre a essere uno degli album metal più interessanti degli anni 80 risulta ancora oggi ruspante e con almeno un paio di indiscutibili capolavori power U.S.A.: Fata Morgana o come cantano i FW “Fetaaaa Morgheeena” e The Guardian. Ma tutte e otto le tracce sono straordinerie, dai cazzo…

Sentitevi lo stacco di The Sourceress, a 3 minuti e 20 circa. Il brano fino a lì sembra una classica cavallonata stile Maiden ma bum, fermi, irrompe un riff doom che non ci si aspetterebbe. Sembra roba degli Obituary di Cause Of Death e poi quel figlio di puttana di John Arch parte con la strofa: Childrenofthedarkne-e-essdanceonthe-e-e-coveno-o-f-the-e-e-lost… e la canta come fosse Abdul Alhazred, l’arabo folle che scrisse il Necronomicon , ubriaco che recita inni al male su un pullman superaffollato in uno scosceso sentiero desertico e quindi, pensate amici a casa, un pezzo che parla di stregoneria si mescola ai Grandi Antichi nella mia testa suggestionabile, ma soprattutto cazzo che prestazione istrionica questo Arch! Chi l’avrebbe mai creso?

Pensare che Arch per i primi due dischi sembra solo un poveretto che qualcuno ha incastrato dentro i Fates Warning per fargli uno scherzo tremendo e anche in Awakenin… lui tira sì fuori la stessa voce falsettosa, esasperante e sofferta come un John Bush con le palle in una pressa, ma la imbrocca dodici volte meglio e la agghinda con tutti quegli arzigogoli orientali pre-Disturbed.  E proprio quando inizi a digerirlo però Arch se ne va dal gruppo e fa (quasi) perdere le tracce. Machecazz.

Awakenin The Guardian è probabilmente il disco della morte dei veri Fates Warning, quelli che si identificavano con il nome molto metallo epico anni 80.  La band venuta dopo forse è anche migliore ma molto diversa, più sofisticata, sperimentale. Avrebbe dovuto mettersi un nome tipo Paradox, Chemical Creation o qualcosa del genere. Anche per Matheos è quasi il caso di adottare un diverso monicker (oddio ho usato la parola monicker… sto perdendo la mia innocenza). Il chitarrista e unico composite ci pensa su bene, sta per convincersi a rianagrafizzare il gruppo prima di darci dentro con i tempi dispari ma per ovvi motivi non ha il coraggio di rinunciare al discreto seguito raggiunto con i Warning e ripartire da zero.

L’arrivo di Mark Zonder dai Warlord (che di suo non ha mai scritto una nota) in sostituzione di Steve Zimmerman, e Ray Alder (gregario tutta la vita) al posto di Arch non cambia molto sul piano puramente artistico e a tal proposito la direzione che Matheos vuole far prendere alla band non è chiara nemmeno a lui visto che No Exit (1988) per certi versi è il disco più pesante della storia dei Fates Warning e per certi altri il più lontano da una concezione classicamente heavy. Il sound e le strutture dei brani in apertura tipo Anarchy Divine o Shades Of Heavenly Death spingono verso il thrash dei Testament. La bellissima ballad In A Word invece riconduce alle atmosfere metalliche troppo “sofisticate” dei primi due album dei Queensryche.

Discorso a parte per la suite in 8 movimenti The Ivory Gate Of Dream, tra arpeggi, ripartenze possenti, “sboronate” svilenti e melodie indimenticabili è un garbuglio complessivamente indigeribile e scusabile dato che si tratta del primo tentativo di progressivizzare il metal. Ha alti e bassi, rabberciamenti, cafonerie, mescolati a momenti acustici toccanti, ispiratissimi, coinvolgenti, sprecati in un esperimento troppo ambizioso per i mezzi e le capacità della band in quel 1988. Che poi vai a capire, pochi mesi più tardi, gli stessi protagonisti tornano con un album incredibile per complessità e bravura e alla base di tutto il progressive moderno, Perfect Symmetry.

Se escludiamo Kevin Moore come guest star, sono le stesse persone del precedente macchinoso e ultradatato No Exit, però in questo caso la band crea un disco incredibile, avanti di dieci anni su tutta la scena metallica. Matheos spinge il verbo dei Priest, i Maiden e Deep Purple, nelle spire compositive di Gentle Giant e Rush, inventando praticamente tutto quello che la maggior parte di voi sentirà per la prima volta in dischi come Awake dei Dream Theater.

A parte questo, non voglio cominciare con la solita recriminazione su quanto la gente sia ignorante e come ingiustamente i veri grandi restino nell’ombra. Non è così. I Fates Warning hanno influenzato molto la band di Portnoy ma senza mai infilare un cazzo di clarino in una delle loro tetre ballad. E questo non paga. A parte ciò, Perfect Symmetry resta IL contributo definitivo che la band di Matheos offre alla storia del metal, di spalla a quello più vistoso e coinvolgente e non meno datato dei Queensryche Operation Mindcrime.

A World Apart, Part Of The Machine, il capolavoro At Fates Hands così armonioso e complesso da far invidia ai fratelli Shulman trasforma il metal in qualcosa di diverso, ancora una volta attraverso l’unico sistema che può garantire una vera evoluzione al genere: la contaminazione, la fornicazione dissolutoria e disdicevole con altri generi. Alla fine di questo album (sebbene la meravigliosa semi-ballad Nothing Left To Say sterzi quasi verso il metal epico dei vecchi tempi) la sensazione è quella di un punto di non ritorno autentico, ormai raggiunto e voluto sin nel profondo da quegli ex tamarrosi Iron Maiden di seconda categoria ormai divenuti irriconoscibili e visionari avanguardisti del metallo pe(n)sante.

(Fine prima parte)

(Francesco Ceccamea)