Fates Warning – La band che inventò i Dream Theater e morì di fame (Seconda e ultima parte)

In un certo senso i Fates Warning hanno iniziato a deludermi da Parallels anche se nel periodo in cui uscì e poi per tutti gli anni 90 lo considerai un grande album progressive metal. Quel disco però era una resa. La band seguiva le orme di Empire dei ‘Ryche in modo fin troppo evidente.

Sì, c’erano canzoni meravigliose come The Eleventh Hour e in fondo era un lavoro meno commerciale rispetto alle cose di Tate e De Garmo, non c’era una Jet City Woman e tanto meno una roba pacchiana come Another Rainy Night. Di contro Leave The Past Behind fa il paio con Best I Can e praticamente tutto il resto del disco si muove sulle coordinate stilistiche di quella canzone.

D’accordo, neanche i Queensryche ne detenevano la paternità visto che si trattava di una rilettura più “hair metal” dei Rush di Moving Pictures ma non perdiamoci dietro a troppe puntualizzazioni: Parallels e anche il successivo Inside Out cercavano di sfondare alla radio facendo il verso a chi di simile c’era riuscito, come la stessa band ammise qualche anno più tardi senza imbarazzo.

Per Jim Matheos però non era proprio aria di scrivere roba commerciale e infatti la situazione del gruppo non cambiò rispetto alla fine degli anni 80. Intorno a esso invece sì, cambiarono molte cose perché mentre i Queensryche si depuravano dal bagno commerciale con un disco ostico e particolarissimo (The Promised Land) un nuovo gruppo era salito nelle classifiche di vendita rielaborando gran parte delle idee di Perfect Symmetry: i Dream Theater, i quali oltre a vendere un gran numero di copie ringraziavano educatamente i Fates a ogni intervista per essere stati un punto di riferimento per la loro crescita artistica.

In principio queste menzioni da parte di Portnoy devono aver fatto piacere alla band, magari suscitando pure qualche illusione su una possibile riscoperta dei vecchi lavori da parte del pubblico per mezzo di quella nuova band di miracolati del prog metal ma la cosa in fondo non avvenne. Però dischi come Awake e la lunga suite di A Change Of Season stimolò Matheos a lasciar perdere le composizioni a pronta presa degli ultimi lavori ‘Rycheiani e tornare al progressive metal vero e proprio.

Ed ecco la decisione che stupì gran parte dell’ambiente metallaro: i Fates Warning avrebbero inciso un disco di una sola canzone lunga cinquanta minuti e rotti. Roba d’altri tempi, non certo originale, come molti metallari sbarbelli si affrettarono a dire. E in fondo i Fates riuscirono, con uno scatto di reni (non esente da rischi per dei tipi che iniziavano ad avere un’età) a prevenire la mossa che prima o poi avrebbero fatto i loro fortunati discepoli DT, guadagnando se non la grana almeno il rispetto di tutti i ragazzini che scoprivano il progressive con Images And Word e smettevano di seguirlo con Train Of Thought.

A Pleasent Shade Of Grey fu un album celebrato dalla critica come capolavoro assoluto del progressive moderno. C’era una sensazione generale di suggestione collettiva, come se quel disco fosse una leggenda ancora prima di essere finito. E quando arrivò nei negozi le recensioni erano già belle e pronte ed entusiastiche. Massimo dei voti ovunque.

A distanza di anni regge ma la mia impressione personale, allora come oggi è che non tutto quello che succede in quei cinquanta minuti faccia parte della stessa canzone e che a tratti sia un semplice album prog metal con una scaletta di brani indipendenti e amalgamati per mezzo di un collante irresistibile quanto un bolo di saliva.

Non voglio essere frainteso, si tratta di un ottimo lavoro ma non quel miracolo che tanti fanzinari si ostinano a sbrodolare in recensioni alla Debaser. Ci sono momenti straordinari e probabilmente alcune delle cose più belle che Matheos abbia mai scritto, ma anche passaggi in cui la band fa progressive in modo fin troppo compiaciuto e prevedibile: mi riferisco a quei punti molto anni 70, tecnicamente complicati che sembrano star lì più per soddisfare l’attesa del pubblico riccardone, quello che vuole le cose complicate se no non è progressive.

Il disco avrebbe potuto durare dieci minuti di meno e scorrere molto meglio, SECONDO ME! Matheos in più di un’occasione ha ribadito che il prog non deve essere inteso come genere prevedibile e familiare: non basta fare un disco che sia un mix di Yes, King Crimson e Gentle Giant per dire di aver fatto un album progressive, in quanto si tratta di una riproposizione diligente di un viaggio che ha fatto qualcun altro; come raccontare una traversata partendo dalle foto e i diari di un vero esploratore.

Il prog è esplorazione e non è detto che ci debba essere il ritmo in 7/8 o dodicimila stacchi e melodie spalmate sopra con un muletto. In gran parte A Pleasent… è un viaggio inedito di cui non si conosce la fine e la si scopre insieme alla band, ma non lo è del tutto. Ci sono dei tratti in cui il gruppo sa benissimo dove sta andando a parare.

E dopo ildiscolungounasolacanzone o unacanzonelungatuttoildisco fu la fine del prog metal e il vero punto di non ritorno per i Fates Warning che per un po’ si bearono del successo dell’album e del tour relativo (per i loro standard) ma quando dovettero rimettersi in marcia con un nuovo disco trovarono una strada tutta in salita.

Tanto per dire, c’è gente che non sospetta siano usciti altri dischi dei Warning dopo A Pleasent… Tanti credono che il ritorno di quest’anno sia dopo un’interruzione assai più lunga di 9 anni. Disconnected e FWX in effetti non godettero di un così grande supporto. E sebbene il primo rappresenti ancora un episodio interessante, il decimo disco è per molti versi un lavoro da dimenticare, la definitiva crisi dopo anni di avvisaglie.

Entrambi i lavori subiscono la nuova febbre del “groove” che si diffuse nel mondo dell’heavy metal sul finire degli anni 90 e inizio 2000. In generale, dai Dokken e i Crue fino ai Rage e i Kreator, le composizioni diventano più semplici per i riff e contorte per i ritmi, l’atmosfera tetra, cyber, per non dire dark e tutti suonano sul posto, facendo su e giù con la testa. Solo gli Iron Maiden continuano a corricchiare in giro per il palco. Chi diventa protagonista è la sezione ritmica, con ritmi sincopati, stacchi e riattacchi sempre più raffinati e imprevedibili.

Disconnected è un disco che non abbandona il progressive intransigente e sperimentale di A Pleasent… ma tenta di far pace con la forma canzone di Inside Out e Parallels, prendendosela molto comoda: solo un paio di tracce non superano i cinque minuti. Personalmente è qui che ho sentito di non avere più molto a che spartire con i Fates Warning, di non capirli e di non sopportarli più.

Mi sembravano ormai più maturi di quello che ero disposto a tollerare. Erano troppo adulti e lontani dal metal muscolare che me li aveva fatti amare. Mi facevano la stessa sensazione dei Queensryche di Tribe: era da tempo che più che amarli li sopportavo, cercando di capirli, giustificarli. In fondo, se non ebbero successo allo stesso modo, entrambi questi gruppi si somigliano nel declino.

Quando uscì Promised Land, commercialmente parlando troppi anni dopo Empire, solo i metallari più superficiali dissero la verità: “in quel disco non c’erano le chitarre”. La maggior parte degli altri era troppo innamorata della band di Seattle per dubitare di qualsiasi scorreggia sonora avessero partorito. Le cose iniziarono a scricchiolare con Hear In The Now Frontier, quando una metà dei recensori iniziò a borbottare mentre l’altra mandò giù fiduciosa pure quel bel polpettone post-grunge credendolo in realtà a qualcosa di molto più sofisticato e complesso di quello che era.

I Fates Warning iniziarono a zoppicare già durante A Pleasent… ma nessuno ebbe il coraggio di ammetterlo e anche ora è una specie di tabù. Quelli che comprarono Disconnected lo giudicarono un grande lavoro prog, anche se c’erano dei filler grossi così, ma Kevin Moore alle tastiere fece da parafulmine e il resto del mondo si limitò a non comprare il disco o ignorarne l’esistenza.

Con FWX ecco le prime stroncature convinte, così come ne ebbero i ‘Ryche con Dedicated To Chaos, l’ultimo disastroso disco prima che si sdoppiassero. E ora che i Fates stanno tornando, le perplessità restano. Zonder registrò il decimo disco e se ne andò dalla band subito dopo, suscitando un certo clamore. Disse che i Fates Warning si erano ammalati e che cercavano troppo il successo, cosa difficile da credere visto che le ultime prove erano tra le cose meno attraenti che avessero mai fatto.

(Francesco Ceccamea)