Skeletonwitch – Serpents Unleashed (Prosthetic, 2013) – Recensione

“Sono il serpente nato dalla carne!”

È piacevole constatare che in questo 2013, due degli album migliori siano di band su cui ho personalmente scommesso poco meno di un anno fa, proprio qui a Sdangher: parlo di Red Fang e ovviamente Skeletonwitch. Non c’è dubbio, come Whales & Leeches dei primi, questo nuovo lavoro dei ragazzotti barbuti e paffuti di Athens, Ohio, è qualcosa di portentoso e irrinunciabile. Non ditemi che ve lo aspettavate perché tanto non vi credo. In fondo non me lo aspettavo neanche io. Non a questi livelli.

Serpents Unleashed completa un cammino evolutivo dove alla rozza e cazzona potenza di Beyond The Permafrost il gruppo ha progressivamente aggiunto fraseggi lamentosi  black e ritmiche asciutte e toniche in stile thrash metal di fine anni 80. Forever Abomination era un’oscura lambada nei boschi seccati dal piscio di mille streghe. Questa invece è una putrida lombata (perdonate il gioco di parole) anzi, è un tremendo pasticcio di carne umana condito con numerose spezie e messo a fumigare sotto il grugno ottuso di tanti filantropici commensali. Che poi sareste voi.

Ok, riconosco di essere un po’ troppo letterario. Diciamo che questo Serpents Unleashed non lascia fuori praticamente nulla di ciò che è metal: dal death agli assoli power, i tartassamenti burini del brutal e le enfatiche ritmiche arpeggiose del black tradizionale, senza mai sbatterci in faccia questa macedonia di quasi tre minuti a brano e fingendo che sia la solita sbobba mefitica di vecchio HM di origine controllata, mentre è roba nuova, gente, che ci crediate o no. Carne viva con già addosso i vermi della putrefazione prossima. Cicciosa malsanità destinata al dentierato marcio della progenie zombesca dei fottuti cosplayer metal: partoriti su facebook e pastorizzati da you tube. Ok, ok, divago ancora. Chiedo perdono.

L’album è davvero smilzo, concreto, essenziale. Ricorda la frenesia leggiadra e abrasiva del grandioso esordio senza speranza denominato Kvelertak (2010). Non a caso il produttore è lo stesso: Kurt Ballou (chitarrista dei mitici Converge e che nel suo curriculum può vantare anche la messa a punto di un altro disco imprescindibile: De Vermis Mysteriis degli High On Fire).

Copertina affidata all’ormai onnipresente John Dyer Baizley (leader dei Baroness) al posto del bravissimo Andrei Bouzikov. È bella, certo, ma in fondo iniziano a stancarmi questi ovini che dissemina un po’ ovunque e se vogliamo dirla tutta ha trasformato la mascotte della band in una specie di dio Bacco autunnale e in avanzato stato di decomposizione, non rinunciando alla sua solita fissa per le visioni hippie/pagane.

Le foglie secche intorno al teschio del personaggio riportano del resto al brano migliore del disco: Beneath Dead Leaves, escursione piuttosto poetica per gli standard del gruppo, che su una struttura thrasharola issa svaccate melodie gotiche e sommerge il tutto in una polverosa melanconia black. La stessa tristezza sopraggiunge a tradimento in altri pezzi: la nenia in fondo a un corridoio di doppia cassa power nel brano Born Ot The Light Thath Does Not Shine o l’arpeggio cimiteriale in apertura di More Cruel Than Week, giusto per citare un paio di momenti sospirosi che poi sono brevissime flessioni sentimentali in mezzo a un turbine metallico sborone e orgiastico che sintetizza in modo davvero ammirevole potenza e creatività. Tené che frasona!

(Francesco Ceccamea)