“Un migliaio di urla si fondono nel silenzio monumentale”
E non facciamo fatica a immaginare il nesso della frase riportata sopra e quella copertina degna di un gruppaccio brutal-death americano in cui una colonna grigia si erge verso il cielo… o è una cloaca intestinale di anime espurgate direttamente dal paradiso? Non è facile stabilirlo. Di sicuro tutti quei corpi intrecciati in un’orgia dannata alla Gustav Doré non si salda bene con l’atmosfera generale del disco che si apre e chiude con un temporale (ma che ingegno!), mena di brutto nella prima parte stazionando su un black tradizionale. Cresce nella seconda quando tutto si dilata, diventa più vago, sperimentale e depressivo, come se la furia via via si sgonfiasse lasciando l’anima in balia di una deriva malinconica, gelida e coagulante.
Cinque anni per concluderlo e tre demo sotto altro nome per far raggiungere ai Blodsgard un’identità e una scaletta che fossero abbastanza coerenti. Forse questo debutto sorprenderà più per la perizia tecnica e la qualità generale della registrazione, rispetto alla scrittura dei brani. Infatti questi dopo qualche svolazzo temerario finiscono per ripiegare sui soliti sentieri battuti. Hagalls Sirkel e le due suite Monument e Livet Er Avylst (La vita cancellata) rappresentano i momenti migliori. Arpeggi di chitarra, un organo da chiesa, uno xilofono, un corno, tutti questi strumenti vengono lasciati da soli a vagare fra le rovine di qualche antica chiesa mentre una voce sussurra fraseggi poco allegri in norvegese stretto.
Poi si ritorno alle pedanti e sempre più vacue esplosioni di strilli, improperi nichilisti e il solito plettrato black onanistico e forsennato e che si perpetra in melodie chitarresche rigorosamente in minore. La conclusiva Svart Blod Flyter (Flussi di sangue nero) omaggia gli Shining più risolutivi, con la voce che passa dallo scream furente a un cantato quasi pop mentre mani invisibili sistemano un cappio sul soffitto di uno squallido cesso borghese e un uomo sale su uno sgabello, ci mette dentro il collo, gira le spalle al mondo e conclude:
“Ingoio una parola che non potrai mai sentire.
Resti della mia vita. Le mie lacrime rapprese”.
(Francesco Ceccamea)