Due parole prima lasciarvi alla lettura di questa splendida recensione. Emanuele ha ceduto. Sono anni che lo imploro, lo scongiuro, lo minaccio, lo insalivo pur di avere un suo pezzo da mettere su Sdangher ma lui mi ha sempre risposto di no. Poi, come succede tutte le volte che uno perde le speranze, tac, eccoti la sorpresa. Certo, avrei preferito un pezzo sugli Amorphis o magari i TON (ma in qualche modo loro centrano), confesso di non essere un fan degli Him e di non averli mai tenuti in grande considerazione. Di contro, ammetto che se il Biani mi avesse mandato un articolo su I Cavalieri del Re, l’avrei pubblicato comunque, perché secondo me è uno dei migliori scrittori di metal che abbiamo in Italia e quando scrive lo fa sul serio, sempre. Questa recensione offre una diversa chiave d’ascolto per la band di Ville Valo e ribalta in modo assai originale e stimolante il concetto trito di rock satanico.
(Francesco Ceccamea)
Dopo tanti anni dedicati all’ascolto della musica del Diavolo, viene quasi spontaneo chiedersi quale sia l’autentico suono della dannazione. Il black metal partorito tra le foreste di conifere e subito sacrificato alle gelide notti scandinave? L’heavy rock ossianico e occulto degli anni ’70, evocato tra acidi lisergici e congregazioni infernali? Oppure l’indulgenza maligna degli Stones, che depravarono le masse del beat inglese attraverso il blues dei crocicchi? Personalmente, ho sempre sostenuto che il sistema migliore per corrompere anche l’animo più puro, fin dai tempi biblici dei frutti proibiti e dei serpenti melliflui, sia quello d’esercitare l’immenso potere della seduzione. Non intimorire l’essere umano con fattezze mostruose e fiamme sulfuree, ma stuzzicare i suoi desideri più reconditi, promettere soddisfazioni impossibili da mantenere, realizzare in vita quella felicità che nessuno è sicuro di meritare per l’eternità. E quale passione si può ritenere più grande dell’amore, quel senso di predestinazione e appartenenza così totalizzante da rendere accettabile persino uno scellerato patto demoniaco?
Greatest Lovesongs Vol. 666 è il debutto su lunga distanza dei finlandesi HIM e, che ci crediate o meno, può diventare l’ideale colonna sonora per il vostro cammino di perdizione. Un album breve, se escludiamo le numerose tracce mute inserite per raggiungere quota 66, con due cover (Wicked Game di Chris Isaak e Don’t Fear The Reaper dei Blue Oyster Cult) assimilate così magnificamente da confondersi nel tessuto di un’opera comunque intensissima, che ridefinisce le coordinate del rock/metal d’ispirazione gotica e si pone come autorevole termine di paragone per il futuro. Nel 1997 gli HIM sono il primo gruppo europeo a riuscire nell’impresa di trascrivere in chiave personale l’inquietudine dimessa ed erotica dei Type O Negative, un successo tanto più eclatante se si considera la giovane età dei musicisti, abbastanza incoscienti da azzerare le influenze hardcore della band di Brooklyn e sostituirle con spudorati accenni melodici al rock radiofonico di Bon Jovi e Billy Idol. Pur seguendo un orientamento stilistico comune, le canzoni sono tutte decisamente eterogenee e a tratti piuttosto naif, con improvvisi stacchi di tastiera e voce filtrata a spezzare la potenza di una sezione ritmica consacrata all’heavy metal, che però deve segnare il passo nei confronti delle disarmanti ballate d’amor & morte declamate dal cantante e principale compositore Ville Valo. Grande merito di questa imprevedibilità va riconosciuto al produttore Hiili Hiilesma, che firma un sound al tempo stesso compatto e dinamico, capace di alternare pesantezza e leggiadria con la massima naturalezza, limitando dove necessario l’esuberanza artistica di un gruppo inconsciamente anticonvenzionale. Greatest Lovesongs Vol. 666 è un disco imperdibile per chiunque sia consapevole di lastricare con cattive intenzioni la propria strada verso il paradiso, un caldo rifugio tra le fiamme dell’inferno per tutti quei cuori che altrimenti morirebbero congelati. Una dolce dannazione dalla quale non vorrete mai redimervi. (Emanuele Biani)