“Esistono band che hanno la rara fortuna di poter essere considerate, fin dal loro esordio, qualcosa di diverso, di unico. I Korn fanno parte di questa casta di eletti…”
Stefano Pera – Metal Hammer, 1996
Capitolo 1
Quando uscì il loro primo disco, molti critici non lo apprezzarono ma tutti ammisero, chi rammaricandosene e chi entusiasmandosi, che quella sarebbe stata la via musicale estrema del terzo millennio. Fu chiaro da subito. I Korn arrivarono con una roba mai sentita, anche se fu impacchettata e messa con disinvoltura dai recensori sugli scaffali del crossover (l’etichetta che si usava all’inizio degli anni 90 per neutralizzare sul nascere l’aumentare delle contaminazioni all’interno del metal, riducendole a qualcosa di “non proprio metal”).
E questi quattro tizi dall’aria emaciata, vestiti con le tute dell’Adidas e i capelli da rastamanno puzzone, sedussero le nuove generazioni di pischelli e si ritrovarono con una schiera di imitatori da far impallidire gli Iron Maiden. Magari la cosa non fu così fulminea, ma tempo un paio d’anni dopo che uscì l’esordio, nel mondo del rock estremo le cose cambiarono del tutto e i ragazzi iniziarono a far pratica direttamente su chitarre con 7 corde e anziché acquistare chiodi dal pellicciaio, si recavano a far spesa nei negozi sportivi.
In fondo non era altro che il genere di cose cominciate da Faith No More, Anthrax, Suicidal Tendencies ma a un livello più consapevole. Jonathan Davis non si limitava a rappare, lui nelle canzoni metalliche ci rantolava dentro tutta una serie di tecniche vocali estranee al metal, come il tanto elogiato scatting riesumato dal vecchio jazz. Passava dal rap, al groul, con una disinvoltura sulfurea, sprigionando un carisma che nella mente dei metallari tradizionalisti veniva metabolizzato con una smania ostentata di farlo a fette con un coltellino svizzero.
Una delle persone più timide della terra, Jonathan. Alcuni giornalisti, dopo averlo intervistato, raccontano di non essere mai riusciti a incrociare il suo sguardo, perso a cercare qualcosa sulla punta delle sue scarpe o sulla moquette. Un passato da disadattato, problemi di asma, un impiego di aiuto presso il coroner, le molestie subite da un vicino, quando era solo un bambino, tutto questo curriculum poco invidiabile confluì perfettamente nella musica dei Korn: un misto di violenza urbana, delirio, rabbia cieca adolescenziale e paura. Tanta paura di impazzire.
Paura e dolore. Risaltano ancora a distanza di anni. Davis è un po’ l’equivalente per gli anni 90 di quello che fu vent’anni prima Robert Plant. Il biondo e superdotato cantate degli Zep incise il suo mantra orgasmico nel tempo in cui tutti scopavano e si davano alla pazza gioia lisergica. Jonathan se ne uscì con un altro mantra, quello della sofferenza e del terrore per un decennio fatto di austerità, rockstar suicide, pedofilia clericale e stragi nei licei.
È come se la sua voce cercasse continuamente di uscire da un incubo infantile. La canzone Daddy ne è l’esempio migliore. Tra sussurri e grida si fa strada l’outing di un bambino spaurito divenuto il leader di una rivoluzionaria band. Le canzoni del primo album, a partire dalla schizzoide Blind fino all’inquietante Clown, descrivono bene un mondo fatto di psicopatici vicini di casa, serial killer con i costumi da pagliaccio e tanti bambini rinchiusi in cantina che gridano e piangono senza essere ascoltati da nessuno.
E la musica della band, a parte l’aura fighettosa che i detrattori tentarono di affibbiargli, in realtà descriveva perfettamente, con i giusti accordi, la follia che l’aveva generata.
Capitolo 2
“Cavoli, la prima volta che ho sentito Roots… c’era quel gan gan gara gan gan pum!… è uguale a quello che facciamo noi, mi sono detto. Fortunatamente loro lo hanno ammesso di essere stati pesantemente influenzati dai Korn”
Jonathan Davis
Quando uscì il secondo album, Life Is Peachy (1996) tanti aspettavano già il crollo dei Korn. Non chiedetemi perché ma succede che le band innovative si ritrovino davanti un muraglione di gufi che desidererebbero solo vederli andare a picco. E il nuovo disco dei Sepultura, in piena ascesa commerciale dopo il successo di Chaos A.D., per un momento fece credere a Davis e i suoi di essere fottuti e passare per un’imitazione della più quotata band brasiliana.
Qualcuno magari ci provò pure a far credere che certe sonorità o i riff fossero farina del sacco di Cavalera, ma non era così. E per quanto i Korn siano stati molto diplomatici durante le interviste ufficialmente, tra una domanda e l’altra non facevano che lanciare insulti contro i Sep e quel figlio di puttana del produttore Ross Robinson, reo di aver portato tutto ciò che lor avevano creato insieme, nelle tasche dei Sepultura.
LIP però ebbe un successo incredibile, nonostante la scarsa pubblicità dell’etichetta Epic. In più Roots non fu apprezzato e compreso come i Sepultura speravano. Anzi, la maggior parte dei fan della band di Belo Orizonte rimase abbastanza fredda di fronte a un lavoro giudicato discontinuo e con momenti davvero poco convincenti. Il nuovo lavoro dei Korn invece fu recensito benissimo. Alcuni lo reputarono superiore all’esordio, anche se a distanza di anni è palese che per quanto sia più a fuoco lo stile, il sound, si tratti comunque di una splendida estensione dell’omonimo, non molto altro. Su Korn c’è già tutto (o quasi) quello che la band aveva da dire. Comunque, nuovi singoli si aggiungono alla nutrita schiera di canzoni rappresentative: A.D.I.D.A.S., Lost, Twist, e un’incredibile ondata di imitatori si accodarono dietro ai nuovi leader.
Capitolo 3
“Assurdo che loro dicano che facevano questa musica prima che uscisse il nostro disco, per quante cose ci hanno rubato per fare un disco come quello.”
Munky
Su tutti i Coal Chamber, fiore all’occhiello della moglie/badante di Ozzy Osbourne, e super raccomandati alla Roadrunner da Dino Cazares divennero per molti il nome di punta della nuova ondata nu metal avviata dai Korn. Di loro oggi non resta davvero più molto, ma al tempo qualcuno si bevve sul serio che i Coal si erano inventati il nu metal in contemporanea con la band di Davis. Forse persino i Chamber stessi ci credettero. Di certo non avevano un suonatore di cornamusa in formazione. Ed è quello l’elemento che davvero fa impazzire dei Korn. La Kornamusa.
In quel groviglio urbano di hip hop e metallo pesante ecco irrompere uno strumento alla Braveheart, un uccello gigante e misericordioso che ci afferra e trasporta sulle cime erbose di qualche scogliera di Scozia, mentre il vento infuria e gli spettri di antichi condottieri in kilt se le danno che se le danno. Peccato che con i Korn l’illusione dura poco. Davis sa suonare quello strumento e lo usa in un tipo di musica che è sì sperimentale ma pur sempre in un contesto musicale legato alle tendenze di quegli anni.
La cornamusa era grandiosa e il vero elemento audace fino a sfidare l’inverosimiglianza e il ridicolo delle convenzioni metalliche. E in tutto quel malanno sonoro fatto di incubi metropolitani e villette a schiera su un cimitero di bambini divorati vivi da clown alcolizzati, insomma tutta quella paccottiglia mefitica dei Korn, la cornamusa faceva pensare ai funerali di qualche valoroso poliziotto di N.Y., ma non importava. Era qualcosa di nuovo, e ci stava. Poteva starci. Oggi la band usa ancora quello strumento, ma è diventato un cliché e il più delle volte si attende come la corona di Freddy Mercury durante i concerti dei Queen anni 80, o più appropriatamente, Eddie che irrompe sul palco dei Maiden e fa la sua solita figura di merda ancora oggi.
Follow The Leader (1988) è il disco più importante dei Korn. Anche oggi, ritornandoci sopra è con il primo, il solo lavoro che regge l’urto del tempo, anzi, sembra cresciuto di spessore. In quel periodo la band era diventata davvero irresistibile su tutti i fronti. Musicalmente scrivevano roba geniale e la accompagnavano con dei video sorprendenti. Freak On A Leash ne è l’esempio perfetto. Sfido chiunque a pensare quella canzone senza abbandonarsi al ricordo delle immagini: il proiettile che attraversa il mondo prima di finire davanti a Davis e duettare con lui nel momento scatting più famoso della sua intera carriera. I Korn erano nati per quell’attimo. Tutto muore subito dopo. Un microsecondo più tardi, quando la chitarra riparte con gli accordoni cromatici noi tutti abbiamo inglobato definitivamente il nuovo e non restaa altro che continuare a riconoscerlo, imitarlo fino alla repulsione e infine disconoscerlo scazzati.
Capitolo 4
“Sì possiedo una calibro 38, come quelle della polizia”
Jonathan Davis
Issue (1999) è senza dubbio un album discreto, ma già da lì il cammino evolutivo della band si arena. La partenza con la cornamusa in fondo è prevedibile e Falling Away From Me, singolone trasmesso alla nausea da MTV, ripete sempre gli stessi concetti di Leader. Tutto è un tantino già sentito. Soprattutto i concetti: l’uso delle parole away e down… Davis in ogni canzone da lì fino a Path Of Totality non fa altro che dire burning down e get away, fall away, take away…, quasi come Halford che dice start the fire o breaking the steel, o se volete… diciamo più nobilmente che Davis è un ragazzino spossato dalle violenze e i soprusi e rimane lì, ipnotizzato dal dolore a ripetere e ripetere di andare via, lasciarlo in pace e che il mondo bruci, lui non vuole più farne parte.
Untouchables (2002) quando uscì aiutò una buona fetta di metallari che fino a quel punto avevano snobbato o disprezzato i Korn a capirli e diventarne addirittura fan. Il disco fu presentato dalla band come il capolavoro definitivo, l’album in cui tutti gli stili possibili confluiscono in un equilibrio miracoloso o qualcosa del genere. Falso visto che non c’è quasi traccia di cose hip hop o veramente sperimentali. Here To Stay, il singolo di lancio, in effetti illude che i Korn siano ancora la band in grado di mettere in musica l’odio, la paura, la follia del nostro tempo: la parte centrale del brano, (ricordate il video?) quando le immagini sulla tv si soffermano su tutta una distesa di musulmani che pregano mentre la canzone indugia con un tappeto di cori e la chitarra incalza, ecco, quella combinazione tra suono e visione trasmette un brivido lungo la schiena.
L’11 settembre era passato da un anno e i gruppi rock invece di scendere in piazza e affrontarlo, come avrebbero fatto stoltamente e in maniera idealistica i figli dei fiori, erano tutti nascosti da qualche parte a rifinire ancora i dischi concepiti prima della tragedia, incerti su cosa pensare, cosa dire e pensierosi di dover prendere quei cazzo di missili charter e girare il mondo amabilmente in compagnia di terroristi col taglierino e per nulla simpatizzanti col pop rock anglosassone. Quel piccolo assaggio faceva pensare che i Korn avrebbero cantato l’angoscia e la disperazione di quell’anno così lungo e assurdo, dove tutti guardavano il cielo e non vedevano più le stelle ma solo aerei che sfrecciavano verso chissà quale approdo sanguinario.
Il disco è molto bello, orecchiabile, ispirato, anche se a distanza di anni suona un po’ datato e inoffensivo. Hollow Life resta un capolavoro meraviglioso. Vedo ancora quel tramonto sulla Città degli angeli mentre sta per aprirsi il cielo e colar giù una pioggia di insetti strani che divorano la faccia di amanti sdraiati sul tettino di una macchina, ma a parte le mie deliranti immaginazioni… L’impressione generale è che i Korn siano diventati a tutti gli effetti pop o che almeno ci abbiano provato. Alcuni dei brani sono concepiti per entrare in classifica, piacere al pubblico e coinvolgere nuovi adepti. Non che ci sia qualcosa di male, ma raramente con questi nobili intenti si evita di doverla pagare allo zio Cronos.
Di sicuro bisogna riconoscere che è il disco in cui i Korn sono più emozionali, fin quasi al sentimentalismo è Untouchables. Di solito loro hanno sempre parlato di dolore ma senza commuovere l’ascoltatore, semmai opprimerlo. Mentre in questo lavoro molti dei brani hanno melodie che gonfiano gli occhi. È un disco empatico, se vogliamo. Forse un tantino troppo rilassato, adagiato su una forma canzone che i Korn hanno creato dal nulla e che adesso viene fuori con lo stampo, senza faticare ogni volta a ridefinirne i contorni.
Vorrei infatti precisare che tale malore era reale e che il concerto è stato annullato perché Jonathan Davis ha avuto un attacco d’ansia. Ho visto personalmente Davis uscire dal tour bus con una faccia cadaverica, sorretto da uno dei membri della crew. (Fabrizio Cariani – Metal Shock, 1997)
E invece di godersi il successo sempre maggiore, la band ripartì subito con un album che sembra più un EP stiracchiato che un vero disco. Ci sono sì, alcuni brani all’altezza, incisivi e pieni di appeal, ma anche episodi fiacchi che puzzano di riempitivo fin dall’altra parte del Sahara. Take A Look In The Mirror (2003) non è solo un disco registrato e licenziato frettolosamente, forse beandosi dell’abbondanza di ispirazione (secondo loro) ma è soprattutto il prototipo del “Korn album” da lì in poi. Tre, quattro buone canzoni e il nulla di nulla nel mezzo. Se facessimo una raccoltona da Take… a Path…, daremmo l’illusione che la band non abbia mai perso la strada di casa, ma oltre a Right Now, Counting On Me, Twisted Transistor, Coming Undone (la We Will Rock You dei Korn) , Love Song e poche altre, c’è un vuoto fatto di brani che girano a vuoto sempre sugli stessi riff e giri melodici fino alla nausea.
See You On The Other Side (2005), il primo senza Brian Head Welch, reinventatosi improvvisamente San Francesco e lanciatosi in una missione per conto di dio dagli aspetti anche esilarante, è un disco di routine che conferma la fase calante. Il momento di maggior confusione è però rappresentato dal binomio Untitled (2007) e Korn III – Remember Who You Are (2010). Il primo parte con una intro strumentale felliniana e poi inanella la solita serie di brani kornesi a dire il vero un tantino più ostici e sperimentali ma anche molto deprimenti e noiosi, dove a livello produttivo si saluta la dipartita del batterista Silvera (sostituito dallo zappiano Bozzio) annullando praticamente la sezione ritmica durante il missaggio.
L’altro, con quel numero III che vorrebbe chiudere una specie di trilogia in fondo mai esistita è l’album in cui i Korn tentano di raccapezzarsi dopo le defezioni di due membri storici nel giro di pochi anni e ritrovare se stessi facendo il verso ai vecchi se stessi. La cosa di per sé non è una grande trovata, specie se non hai uno straccio di idea da mettere sul piatto. I Korn sono disperati e coinvolgono nella rimpatriata stilistica persino il produttore dei primi due dischi, colui che vendette il culo della band ai Sepultura, Ross Robinson.
Questo dispiegamento di forze per un lavoro modesto e che al più lascia indifferenti. Personalmente lo reputo l’album peggiore, con buona pace dei lanciatori di pomodori che assediarono la casa di Davis e gli altri puzzoni quando uscì The Path Of Totality (2011).
Trovo più appagante rapportarsi all’adulazione di una persona che non al suo amore: ti viene chiesto di meno, ti viene dato di più”
Jonathan Davis
Per alcuni non è neanche un vero disco dei Korn, per altri l’album che avrebbero dovuto fare da troppo tempo. Di sicuro non c’è niente che abbia diviso di più la gente di questo lavoro. Chi ci vede il genio e la gioia euforica di una creatività ritrovata e chi una pagliacciata inascoltabile e per giunta fuori moda.
Non sono un esperto di musica elettronica. Posso solo dire che ci sono alcune delle più belle canzoni mai scritte dai Korn fin dai tempi di Untouchables. Quali? Chaos Live In Everything, Get Up!, e la mastodontica Narcissistic Cannibal. Poco mi importa che al posto delle chitarrone ci siano i suoni elettro pompati da qualche deejay, le melodie sono incredibili e Davis canta come non capitava da un pezzo. Non voglio entrare nel merito del rischio preso dalla band, il coraggio di cambiare, rimettersi in discussione o essere abbastanza disperati da sfidare il ridicolo per tornare grandi, la materia prima c’è e la ritrovata vena creativa è confermata dall’ultimo, ottimo, The Paradigm Shift.
Disco snello, agile e ultramelodico, in cui i Korn diventano una specie di Linkin Park più virili e oscuri. Prey For Me, Love & Meth, What We Do, trittico con cui si apre l’album sorprendono per freschezza. Sono i Korn ma non i soliti Korn. Non è l’ennesimo e sfiancante album dei Korn, che nonostante la mancanza di ispirazione si ostini a proporre 17 brani più vari remix. Non il solito disco di riffoni di una nota con Jonathan che blatera il solito blob concettuale di gettinaaway o bringiniudauntofallingtoburnigndappadubadapù… non è la solita deprimente battaglia per rimanere vivi in mezzo a noi, ma un lavoro energico, dove la scaletta è lavorata di cesello e in cui resta solo l’essenziale. Si sente che la band è riuscita a darsi una regolata, una misura, sottraendo e modellando. E questo merito credo sia dovuto anche al produttore Don Gilmore (Hybrid Theory dei Linkin’ Park guarda caso).
Ci sono due o tre filler, d’accordo. Stiamo parlando di un gruppo che ha sulle spalle quasi vent’anni di carriera e una media di un disco quasi ogni anno e tre, eh?! (Crozza/Razzi, cit.). Non si può umanamente pretendere di più e in fondo non era neanche necessario. Però è come se la band abbia lasciato cadere un bagaglio di incubi e rancori che non erano più il carburante vitale di un exploit discografico e artistico sorprendente e fuori dagli schemi, ma una zavorra che li stava trasportando sempre più giù nel citazionismo bolso degli ex grandi. Tra l’altro è tornato pur Brian “Head” Welch.
Magari è il colpo di coda prima del crollo definitivo, oppure una rinascita insperata da cui verranno fuori altri due o tre maxi dischi. Staremo a sentire. Chiudiamo sulle note di Never Never, così happy, gagliarda e in pace con il proprio tempo. I Korn sono tornati e forse sono ancora qui per restare.
Ma che conclusione del cazzo…
Munky
(Francesco Ceccamea)