Magari oggi questo nome vi dirà poco ma una decina di anni fa, gli A Fire Inside stavano per diventare la next big thing, almeno secondo la stampa inglese che li pompò fin quasi a fargli esplodere il cervello. Partirono come una specie di versione aggiornata dei vecchi Misfits e poi furono chiusi, anche a causa di una schietta passione per la new wave, nel sacco del calderone emocore dei primi anni duemila. Vi aspetterete che io liquidi questo nuovo album come un tentativo patetico di riguadagnare le classifiche dopo il mezzo passo falso di Crash Love (2009), un mucchio di canzoncine con cui il cantante Davey Havok e i suoi comprimari rifanno il verso alle loro uscite più commerciali (Sing The Sorrow, Decemberunderground) e invece no perché Burials è un gran bell’album: onesto, coerente, denso e inquietante come un bosco nero, alla faccia del successo e delle mode. Tra i Cure di Head On The Door, i primissimi U2, con generosi rimandi ai Korn (The Embrace), i Placebo (Rewind) e al dark tirato dei Sister Of Mercy, questo disco mantiene lungo tutto il tragitto sonoro un’atmosfera lugubre, uggiosa, nonostante le escursioni punk (Wild) e hard rock (Anxious).
I brani conducono l’immaginazione verso desolanti paesaggi lacustri pieni di leggende spettrali (The Face Beneath The Waves), amori finiti male e danze disperate giù per le scale infernali dei brutti ricordi (A Deep Slow Panic). Non è lavoro deprimente, atmosferico, rarefatto. Ci sono momenti di trascinante energia (17 Crimes, The Conductor), ma non si esce mai dalla notte pulsante e infestata di delusioni. (Francesco Ceccamea)