Un laureando mette in relazione, nella sua tesi di laurea, la mitologia lovecraftiana con i Racconti del Filò tramandati oralmente nel Polesine. Vede la luce un resoconto scritto da Lovecraft in un ipotetico viaggio in Italia nel 1926. Arriva una troupe dall’America, giusto il tempo per un found footage dell’arrivo a Venezia e parte Road to L., primo epigono di un certo valore di quell’ormai leggendario Blair Witch Project del 1999. Noi però siamo nel 2005 e uno dei meriti della pellicola sarà quello di anticipare d’un paio d’anni il boom dell’horror mockumentaristico divulgato dai vari REC, Paranormal Activity o Diary Of The Dead. Tanto che dovremmo complimentarci con i due registi (Federico Greco e Roberto Leggio) per essere dei campioni di ricettività.
E non è tutto. Perché alla fin della fiera viene fuori che la particolare endemicità del film consisterà nell’originale organicità con la quale i due autori sapranno giustapporre le loro contaminazioni. Road movie, detective story, horror, mockumentary, inchiesta, fantascienza aliena, lovecraftismi danzano al sincrono, coreografati dal motivo costante della provincia italiana. Una provincia che non è solo oggetto di indagine né oggetto estetico ma polo interpretativo delle proposte artistiche dell’impero oltreoceanico hollywoodiano. Nel senso che non è un film sulla provincia ma un film di provincia e con ciò non vorrei connotarlo negativamente.
Il pregio è proprio quello di mantenere ricco, e a un alto livello artistico, il pool genetico della cinematografia indipendente occidentale. Tra tutti, il modello principale di Road to L. sembra essere proprio BWP, e forse questo calco stilistico eccessivo risulta essere il tratto registico meno ispirato se non fosse per un sapiente stemperamento affidato a un manierismo mosso da orgogli campanilistici. BWP viene tradotto in un format italiano e, soprattutto nelle fasi iniziali, gran parte del carico di tensione viene smorzato da ciò che qua chiamo Giacobbo style. Bando, dunque, a una esterofilia documentaristica per lasciare il passo a soluzioni voyageristiche.
E perciò non ci sorprende più di tanto l’intervista a Sebastiano Di Gennaro, direttore dell’USAC e teorico dell’Homo Saurus. Mentre più pregno di significati ci appare il cameo di Carlo Lucarelli che, idealmente, in veste di modello e padrino della nuovissima generazione italiana del (ehm…si) genere sembra voglia somministrare una sorta di battesimo iniziatico, o quantomeno una benedizione. Dalla parte centrale il film viaggia invece all’incontrario, dando troppo spazio a un pathos non proprio nostrano e privo di maniera e autorialità. Audace la scelta della recitazione in angloamericano, soprattutto se comparata a quanto detto riguardo al format italiano, e bravissimi gli attori ai quali giustifichiamo persino qualche caduta di stile in sede di code switching.
È questa un’iniziativa lodevole, originale, fresca sebbene immagino poco adatta, forse anche controproducente, se rapportata all’ozioso spettatore medio italiano. La sceneggiatura non è impeccabile come anche la logicità interna ma non si vuol fare di queste due componenti dei cavalli di battaglia, questo ci è chiaro. Accademico è invece il passaggio diegetico – extradiegetico del motivo del film; una canzoncina popolare che da etno-freaky si trasforma, nel passaggio, in fascinoso melodramma che avvolge e ammorba allo stesso tempo, col suo duplice fascino, un ermetico Polesine. Che sorpresa, poi, imbattersi in una giovanissima Valentina Lodovini che, nonostante stecchi un po’ nei pianti, dà comunque buona prova di sé.
Il finale? Lovecraftiano. E Lovecraft stesso, ne sono convinto, sarebbe fiero di come viene trasposta su schermo la sua retorica dell’ignoto. Finiamo con il titolo: Road to Lovecraft, Road to Hell, Road to Loreo (il paesino sotto inchiesta). Perfetto. E sono sicuro che si strizzi l’occhio persino ad Argento. In definitiva nonostante le pecche, o forse proprio grazie ad esse, Road to L. rimane un prezioso e composito gioiellino made in Italy.