Dietro i Faklenbach c’è un tedesco che si crede islandese. E se non lui lo credono altri. Scrive testi in norreno, la lingua dei vichinghi. Così pare almeno, inutile che finga di capirci qualcosa. Spesso il metal ci costringe a fronteggiare argomenti assai complicati. Non è più solo una questione di combattere il fuoco con il fuoco, buttar giù il muro e sparare nel buio contro nemici invisibili di questo o di un altro mondo. Ormai la smania di riscatto che il genere riesce a esprimere così bene fin dal tempo in cui i Twisted Sister ci incoraggiavano ad alzare il volume contro i genitori cattivi e i Judas Priest ad attendere con pazienza l’arrivo di qualche dio del metallo che ci avrebbe vendicato per le angherie subite dai bulli in fondo alla strada… ormai quel senso di nobile resistenza di fronte alla tirannia di un destino avverso si è immerso in territori troppo colti, almeno nelle pretese. Vogliamo parlare del latinese delle band Norvegiofile?
Il grembo purulento e magmatico della Storia, dove grandi popoli continuano eternamente a cadere e si rialzano giusto per intraprendere un ennesimo viaggio depresso nei programmi scolastici o nel diario segreto di qualche giovane patriota sradicato alla terra che l’anima sua reclama ogni giorno, tutto questo ha finito per entrare nei dischi metal e costringerci a sbatterci il grugno, che ce ne freghi qualcosa o meno. E vedete anche voi quel torrente di sangue in cui cadaveri tristi si lasciano trascinare in un viaggio finale, verso il Valhalla, Tuonela, l’infierno de Satanass o soncazzo io!? Bene, quel torrente è ormai da quasi vent’anni bagaglio assodato del metalluz truz en ivol!
Mark Tümmers, tedescone dal nome ideale per un centrale difensivo della nazionale germanica, è residente a Dusseldorf e non molto lascia scoprire di sé (come vedete nella foto, il suo corpo lo dice chiaro: non vi dico niente!), alimentando col silenzio il mito che appartenga a un’altra terra. E in quella lingua strana che sembra spesso ripetere in un increscioso teatro palestroide le due parole emblematiche “Ernia” e “Merdia”, costui ci racconta le vicissitudini di un popolo ormai svanito nelle coltri schiumose degli abissi o sulle dolci rive di qualche fertile lombo straniero. Parla di corvi che guidano le navi dal cielo, popoli che seguono il canto dei lupi attraverso sentieri oscuri e ostili, uomini stanchi e condannati che errano in eterno attraverso la crudeltà e la dolcezza delle stagioni, la brutalità delle guerre, le menzogne dei tiranni e la sonnifera pace che rende le spade così pesanti. Ne tratta come se quegli eventi lontani lo riguardino da vicino, come farsi un caffè o recuperare il gatto in giardino.
Tümmers si fa chiamare Vratyas Vakyas e suona tutti gli strumenti da solo, seguendo la tradizione egoselfica del blackmetal norvegese. Di teutonica mano ferma e pesa, batte i tamburi con la solennità infantile di uno Scott Columbus, dando a brani come Mijn Laezt Wourd o la magnifica Eweroun, un incedere alla Battle Hyms, con sopra il volteggio rustico e gaudente dei nostri Tazenda, soprattutto quando Marky spiega la gola al vento e intona le sue litanie enfie di phatos e rammarico norreno.
E ramazza le sue chitarre acustiche con ritmati e arpeggi che farfallosi librano noi tutti sopra le nuvole o in una vastità erbosa ampia come il vento. E poi giù con un degno pestone sul pedale del distorto e dal pulito si passa al porco power animalesco di Wulfarweijd e l’idrofobia black di Bronzen Embrace e I Nattens Stilta che inizia di scapoccio e si sbriciola in un sirtaki orchestrale che ricorda le scempiaggini pompose dei vecchi Lacrimosa.
Asa è un disco commovente e non lo dico per scherzo. In tutta la sua dubbia attendibilità culturale sprigiona un’autentica magia e un sentimento vero che ci convincono a chiudere gli occhi e vagare in fantasticherie grigie, su una terra cremisi che scivola sempre più verso un inquieto sodalizio col mare bastardo.
Ammazza quanto so’ fico.
(Francernia Ceccamerdia)