La bestia uccide a sangue freddo di Fernando Di Leo

Dopo aver riletto per noi la mitica Trilogia del Milieu, il nostro caro Santo Premoli torna sul luogo del delitto e affronta l’unica incursione del maestro Fernando Di Leo nel pure thrilling, se escludiamo I ragazzi del massacro, capolavoro sublime a metà tra poliziottesco e thriller Ladiano (nel senso di Aldo Lado). 

Questa è la storia: in una clinica psichiatrica femminile, nell’arco di una notte, un tizio fa fuori una dopo l’altra le pazienti. È però difficile trovare qualcosa che renda La bestia uccide a sangue freddo (Fernando Di Leo, 1971) un film piacevolmente memorabile. Di Leo alterna momenti di svogliatezza ad altri di orgoglio e di ingegno. Sono risapute, e d’altro canto evidenti, le motivazioni della produzione: fare un sottoprodotto a basso costo del nuovo giallo di Argento, facilmente commerciabile.

In quegli anni, infatti, Argento corre come un fuoriclasse con la sua trilogia zoologica e bisogna stargli dietro, poco importa la qualità della produzione. Low budget e velocità di esecuzione sono, dunque, i fattori che determinano maggiormente la qualità finale dell’opera che è, per stessa ammissione del regista, mediocre.

Di Leo per raggiungere quell’ottantina di minuti, che dovrebbero giustificare la spesa per la visione del film, è costretto persino all’autoriciclo. I preamboli degli omicidi sono difatti rimpolpati con flashback/riassunti, del tutto inutili, rappresentati tramite un riuso di spezzoni già visti durante il film. Il discorso cambia un po’ per i titoli di testa. Medesimo riciclaggio ma l’effetto, stavolta, ci impressiona in positivo.  Passabili sono anche alcuni momenti del montaggio come la presentazione del maniero ma soprattutto la molteplicità dei punti di vista della bestia rantolante quando studia le sue prede e le loro topiche nudità.

Ancora affascinante, e non perché siamo spiritualmente aridi, è la scena del massaggio lesbo trattata con pathos corbucciano e penso all’epica e japan-oriented scena di sesso interracial di frontiera de Il Grande Silenzio (Corbucci, 1967). Catchy e ammiccante il motivo musicale delle pazienti. Ma non basta tutto ciò, Di Leo mette troppi ingredienti e li soppesa di fretta.

Un altro problema di questo film, che sarebbe potuto essere persino ambizioso se lo si fosse affrontato tramite un’attenta progettualità, è, infatti, la mancanza di equilibrio e amalgama tra i generi percorsi dalla pellicola. E il risultato finale è una poltiglia informe e disarticolata. Quasi come il risultato del plurimo omicidio finale della bestia, probabilmente il miglior episodio del film. Il killer affastella vittime e le plasma, le fonde l’un l’altra a suon di palla chiodata fino a che non ottiene un supercadavere, la reductio ad unum delle vittime stesse. E sembra di assistere a un vero e proprio atto di creazione artistica interrotta da un ralenti niente male.

Ecco, a me pare che nell’affastellare e giustapporre diversi generi, troppi davvero, stavolta, Di Leo, come il suo killer, abbia provato a realizzare a un superfilm; ed è un peccato che in questo caso non siano risultati bastevoli il furore e l’immediatezza creativa; sembrano, anzi, largamente soppiantati da svogliatezza e assenza di coinvolgimento. Tanto che nemmeno Kinski capisce bene come muoversi né che idea voglia sviluppare Di Leo, finendo per rimanere spaesato in un carattere che sarebbe voluto essere fluido e metamorfico ma che in realtà è aeriforme e inconsistente. Proprio come l’intera pellicola.

(Santo Premoli)