Necrofilia new age – GRAVE MIASMA – Odori Sepulcrorum (Sepulchral Voice Records, 2013)

A un primo ascolto sembra di stare in un vecchio cimitero durante un terremoto: ossa che riemergono mentre madre natura assesta la sua posizione, piombandoci nella stessa terra che i defunti dimenticati hanno rifocillato per anni. Eppure dai testi le cose sembrano assai più complesse, per non dire astruse. I Grave Miasma, band inglese dal nome putrelloso inequivocabile non sono tanto una nostalgica (e sterile) rivisitazione del vecchio death, con quella goliardia obitoriale degli Autopsy e la decadenza salnitrica dei primi Paradise Lost comunque evidente sul piano stilistico.

I testi infatti portano le cose a un livello meno scontato e innocuo, del tipo che per capirci qualcosa bisognerebbe essere laureati in Storia delle Religioni. Vengono tirati in causa tra un ruggito e un rigurgito cavernicolo, non so quanto consapevolmente, il buddismo con l’acca, gli alieni, il libro tibetano dei morti, Moloch, Kemosh, dio incazzatissimo oppure il Shavasana, che poi è la posizione da cadavere dello yoga… il tutto inglobato in un lirismo elegiaco che rimanda alla putredine, l’abbandono della materia ai vermi e il passaggio spirituale verso un altro mondo ombroso e non proprio consolante.

La produzione un tempo si sarebbe detta di cacca, mentre oggi se un album viene registrato con gli standard qualitativi di vent’anni prima è preso come una scelta artistica e ci si arrischia anche in una serie di aggettivi revivalistici pieni di entusiasmo zanichelliano. E così la voce è immersa in un quintale di riverbero (se il riverbero si potesse quintalizzare) e le chitarre spesso si confondono nel macello dei suoni. Il tutto però risulta seducente e suggestivo per chi come il sottoscritto ripensa con nostalgia al vecchio death albionico e soprattutto ai cimiteri abbandonati e divorati dalla natura, in un festino rigoglioso di piante e lapidi sommerse.

Potremmo definire questo pasticcio puzzone come un esempio di necrofilia new age? Non saprei. Di sicuro brani come Ovation to a Thousand Lost Reveries e l’impronunciabile έσχατος sono piene di rallentamenti minacciosi alla Morbid Angel, con le chitarre che si incagliano tra di esse, in riff schizzati e ossessivi, prima di ripartire con furia cavallina alla maniera dei vecchi Benediction. E questo menù sonoro non lascerà indifferenti gli amanti del genere più tvue. quelli che per intenderci che nell’ultimo lustro (che poi sarebbero 5 anni) non sono riusciti a trovare niente di più appagante del primo (buonissimo) Vallenfyre del nostalgico Gregor Mackintosh.

(Francesco Celladentro)